- Dal CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA (nn. 1961-1962)

Dio, nostro Creatore e nostro Redentore, si è scelto Israele come suo popolo e gli ha rivelato la sua Legge, preparando in tal modo la venuta di Cristo. La Legge di Mosè esprime molte verità che sono naturalmente accessibili alla ragione. Queste si trovano affermate ed autenticate all’interno dell’Alleanza della salvezza.

… Il Decalogo è una luce offerta alla coscienza di ogni uomo per manifestargli la chiamata e le vie di Dio, e difenderlo contro il male: Dio “ha scritto sulle tavole della Legge ciò che gli uomini non riuscivano a leggere nei loro cuori” (SANT’AGOSTINO, Enarratio in Psalmos, 57).

 

PRIMO COMANDAMENTO:

“IO SONO IL SIGNORE, TUO DIO. NON AVRAI ALTRO DIO FUORI DI ME”

(secondaparte)

Adora il Signore Dio tuo” (Mt 4,10). Adorare Dio, pregarlo, rendergli il culto che a lui è dovuto, mantenere le promesse e i voti che a lui si sono fatti, sono atti della virtù della religione, che esprimono l’obbedienza al primo comandamento. Il dovere di rendere a Dio un culto autentico riguarda l’uomo individualmente e socialmente. L’uomo deve “poter professare liberamente la religione sia in forma privata che pubblica” (CONC. VAT.

II, Dignitatis humanae, 15).

 

Non avrai altro Dio fuori di me” vieta di onorare altri dèi (politeismo), all’infuori dell’Unico Signore che si è rivelato al suo popolo. Proibisce la superstizione e l’irreligione. La superstizione rappresenta, in qualche modo, un eccesso perverso della religione; l’irreligione è un vizio opposto, per difetto, alla virtù della religione. La superstizione è una

deviazione del culto che rendiamo al vero Dio. Ha la sua massima espressione nell’idolatria, come nelle varie forme di divinazione e di magia. 

La vita umana si unifica nell’adorazione dell’Unico Signore. Il comandamento di adorare il solo Signore semplifica l’uomo e lo salva da una dispersione senza limiti. L’azione di tentare Dio con parole o atti, il sacrilegio, la simonia (acquisto o vendita delle realtà spirituali: At 8,20) sono peccati di irreligione proibiti dal primo comandamento come pure l’ateismo, in quanto respinge o rifiuta l’esistenza di Dio.

 

L’idolatria non concerne soltanto i falsi culti del paganesimo. Rimane una costante tentazione della fede. Consiste nel divinizzare ciò che non è Dio. C’è idolatria quando l’uomo onora e riverisce una creatura al posto di Dio, si tratti degli dèi o dei demoni (per esempio il satanismo), del potere, del piacere, della razza, degli antenati, dello Stato, del denaro, ecc. “Non potete servire a Dio e a mammona”, dice Gesù (Mt 6,24). Numerosi martiri sono morti per non adorare “la Bestia”, (Ap 13) rifiutando perfino di simularne il culto. L’idolatria respinge l’unica Signoria di Dio; perciò è incompatibile con la comunione divina (Gal 5,20; Ef 5,5).

 

Il culto delle sacre immagini non è in opposizione al primo comandamento. Fondandosi sul mistero del Verbo incarnato, il settimo Concilio ecumenico, a Nicea (nel 787), ha giustificato, contro gli iconoclasti, il culto delle icone: quelle di Cristo, ma anche quelle della Madre di Dio, degli angeli e di tutti i santi. Incarnandosi, il Figlio di Dio ha inaugurato una nuova “economia” delle immagini. In effetti, l’onore reso ad un’immagine appartiene a chi vi è rappresentato, e chi venera l’immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto. 

 

- Dalle Prediche di PADRE RANIERO CANTALAMESSA (Terza predica di Quaresima, 29 marzo 2019) 

 

LA IDOLATRIA, ANTITESI DEL DIO VIVENTE

(seconda parte)

Nell’idolatria, l’uomo non “accetta” Dio, ma si fa un dio. Le parti vengono invertite: l’uomo diventa il vasaio e Dio il vaso che egli modella a suo piacimento (cfr Rom 9,20ss). C’è in tutto ciò un rimando, almeno implicito, al racconto della creazione (cfr Gen 1,26-27). Lì si dice che Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza; qui si dice che l’uomo ha scambiato per Dio l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile. In altre parole, Dio fece l’uomo a sua immagine, ora l’uomo fa Dio a sua immagine. Poiché l’uomo è violento, ecco che farà della violenza un dio, Marte; poiché è lussurioso, farà della lussuria una dea, Venere, e così via. Fa di Dio la proiezione di se stesso.

Tu sei quell’uomo!

… Ma che parte abbiamo noi – intendo adesso “noi” nel senso di noi che siamo qui, di noi credenti -, nella tremenda requisitoria della Bibbia contro l’idolatria? Stando a quanto detto fin qui, sembrerebbe, infatti, che noi abbiamo, più che altro, un ruolo di accusatori. Ma ascoltiamo bene ciò che segue nella Lettera di Paolo ai Romani. Dopo aver strappato la maschera dal volto del mondo, in essa l’Apostolo strappa la maschera anche dal nostro volto e vediamo come.

Sei dunque inescusabile chiunque tu sia, o uomo che giudichi, perché mentre giudichi gli altri condanni te stesso; infatti tu che giudichi fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi, forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio?” (Rom 2,1-3). La Bibbia narra questa storia. Il re David aveva commesso un adulterio; per coprirlo aveva fatto morire in guerra il marito della donna, sicché, a quel punto, il prendersela per moglie poteva apparire addirittura un atto di generosità, da parte del re, nei confronti del soldato morto combattendo per lui. Una vera catena di peccati. Venne allora da lui il profeta Natan, mandato da Dio, e gli narrò una parabola (ma il re non sapeva che era una parabola). C’era – disse –, in città, un uomo ricchissimo che aveva greggi di pecore e c’era anche un poveretto che aveva una sola pecorella a lui molto cara, dalla quale traeva il suo sostentamento e che dormiva con lui. Arrivò al ricco un ospite ed egli, risparmiando le sue pecore, prese per sé la pecorella del povero e la fece uccidere per imbandire la mensa all’ospite. All’udire questa storia, l’ira di David si scatenò contro quell’uomo e disse: “Chi ha fatto questo merita la morte!”. Allora Natan, abbandonando di colpo la parabola e puntando il dito contro di lui, disse a David: “Tu sei quell’uomo!” (cfr 2Sam 12,1ss). È ciò che fa con noi l’apostolo Paolo. Dopo averci trascinato dietro di sé in un giusto sdegno e orrore per l’empietà del mondo, passando dal capitolo primo al capitolo secondo della sua Lettera, come se si volgesse di colpo verso di noi, egli ci ripete: “Tu sei quell’uomo!”. La ricomparsa, a questo punto, del termine “inescusabile” (anapologetos), usato sopra per i pagani, non lascia dubbi sulle intenzioni di Paolo. Mentre giudicavi gli altri – egli viene a dire –, tu condannavi te stesso. L’orrore che hai concepito per l’idolatria è ora di rivolgerlo contro di te.

Il “giudicante”, nel corso del capitolo secondo, si rivela essere il giudeo che qui, però, è preso, più che altro, come tipo. “Giudeo” è il non-greco, il non-pagano (cfr Rom 2,9-10); è l’uomo pio e credente che, forte dei suoi principi e in possesso di una morale rivelata, giudica il resto del mondo e, giudicando, si sente al sicuro. “Giudeo” è, in questo senso, ognuno di noi. Origene diceva addirittura che, nella Chiesa, a essere presi di mira da queste parole dell’Apostolo sono i vescovi, i presbiteri e i diaconi, cioè le guide, i maestri.

Paolo ha sperimentato egli stesso questo shock, quando, da fariseo, divenne cristiano, e perciò può ora parlare con tanta sicurezza e additare ai credenti la strada per uscire dal fariseismo. Egli smaschera la strana e frequente illusione delle persone pie e religiose di ritenersi al riparo dalla collera di Dio, solo perché hanno una chiara idea del bene e del male, conoscono la legge e, all’occasione, la sanno applicare agli altri, mentre, quanto a se stessi, essi pensano che il privilegio di stare dalla parte di Dio o, comunque, la “bontà” e la “pazienza” di Dio, che conoscono bene, faranno un’eccezione per loro.

Immaginiamo questa scena. Un padre sta rimproverando uno dei suoi figli per qualche trasgressione; un altro figlio, che ha commesso la stessa colpa, credendo di accattivarsi la simpatia del padre e sfuggire al rimprovero, si mette a sgridare anche lui, ad alta voce, il fratello, mentre il padre si aspettava tutt’altra cosa e cioè che, sentendolo rimproverare il fratello e vedendo la sua bontà e pazienza verso di lui, egli corresse a gettarglisi ai piedi, confessando di essere reo anche lui della stessa colpa e promettendogli di emendarsi.

O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio” (Rom 2,4-5).

Che terremoto il giorno che ti accorgi che la parola di Dio sta parlando in questo modo proprio a te e che quel “tu” sei proprio tu! Avviene come quando un giurista è tutto intento ad analizzare una famosa sentenza di condanna emessa in passato e che fa testo, quando, improvvisamente, osservando meglio, si accorge che quella sentenza si applica anche a lui ed è tuttora in pieno vigore: cambia di colpo lo stato d’animo e il cuore cessa di essere sicuro di sé. Qui la parola di Dio è impegnata in un vero e proprio tour de force; essa deve capovolgere la situazione di colui che la sta trattando. Qui non c’è scampo: bisogna “crollare” e dire come David: “Ho peccato!” (2Sam 12,13), oppure avviene un ulteriore indurimento del cuore e si rafforza la impenitenza. Dall’ascolto di questa parola di Paolo si esce o convertiti o induriti.

Ma qual è l’accusa specifica che l’Apostolo muove contro i “pii”? Quella – dice – di fare “le medesime cose” che giudicano negli altri. In che senso “le medesime cose”? Nel senso di materialmente le stesse? Anche questo (cfr Rom 2,21-24); ma soprattutto le medesime cose, quanto alla sostanza, che è l’empietà e l’idolatria. L’Apostolo lo mette meglio in luce nel corso del resto della sua Lettera, quando denuncia la pretesa di salvarsi con le proprie opere e così fare di se stessi i creditori e di Dio il debitore. Se tu, viene a dire, osservi la legge e fai ogni sorta di opere buone, ma per affermare la tua giustizia, tu metti te stesso al posto di Dio. Paolo non fa che ripetere con altre parole quello che Gesù, nel Vangelo, aveva cercato di dire con la parabola del fariseo e del pubblicano al tempio e in infiniti altri modi.

Applichiamo il tutto a noi cristiani, visto che, come dicevamo, il bersaglio di Paolo non sono tanto gli ebrei come popolo, quanto l’uomo religioso in genere e nel caso specifico i cosiddetti “giudeo-cristiani”. C’è un’idolatria nascosta che insidia l’uomo religioso. Se idolatria è “adorare l’opera delle proprie mani” (cfr Is 2,8; Os 14,4), se idolatria è “mettere la creatura al posto del Creatore”, io sono idolatra quando metto la creatura – la mia creatura, l’opera delle mie mani – al posto del Creatore. La mia creatura può essere la casa o la chiesa che costruisco, la famiglia che creo, il figlio che ho messo al mondo (quante mamme, anche cristiane, senza rendersene conto, fanno del loro figlio, specie se unico, il loro dio!); può essere l’istituto religioso che ho fondato, l’ufficio che ricopro, il lavoro che compio, la scuola che dirigo. Per me che vi parlo, questa stessa predica che sto facendo a voi!

Al fondo di ogni idolatria c’è l’autolatria, il culto di sé, l’amor proprio, il mettere se stesso al centro e al primo posto nell’universo, sacrificando a esso tutto il resto. Basta che impariamo ad ascoltarci mentre parliamo per scoprire come si chiama il nostro idolo, poiché, come dice Gesù, “la bocca parla di ciò che abbandona nel cuore” (Mt 12,34). Ci accorgeremmo di quante nostre frasi cominciano con la parola “io”. 

Il risultato è sempre l’empietà, il non glorificare Dio, ma sempre e solo se stessi, il far servire anche il bene, anche il servizio che prestiamo a Dio – anche Dio! –, alla propria riuscita e alla propria affermazione personale. Molti alberi di alto fusto hanno il fittone, una radice madre che scende a perpendicolo sotto il fusto e rende la pianta salda e irremovibile. Finché non si mette la scure a quella radice, si possono recidere tutte le radici laterali, ma l’albero non cade. Quel posto è molto stretto, non c’è posto per due: o c’è il mio io, o c’è Cristo.

Forse, rientrando in me stesso, io sono pronto, a questo punto, a riconoscere la verità e cioè che finora, almeno in qualche misura, ho vissuto “per me stesso”, che sono anch’io coinvolto nel mistero dell’empietà. Lo Spirito Santo mi ha “convinto di peccato”. Comincia per me il miracolo sempre nuovo della conversione. Se il peccato, come ci ha spiegato Agostino, è consistito in un ripiegamento su se stessi, la conversione più radicale consiste nel “raddrizzarci” e ri-volgerci a Dio. Non possiamo farlo nel corso di una predica, o di una quaresima; possiamo però almeno prendere la decisione seria di farlo, ed è già in qualche modo, per Dio, come averlo fatto.

Se mi schiero con tutto me stesso dalla parte di Dio, contro il mio “io”, divento suo alleato; siamo in due a combattere contro lo stesso nemico e la vittoria è assicurata. Il nostro io, come un pesce tirato fuori dalla sua acqua, può guizzare ancora e dimenarsi per un po’, ma è destinato a morire. Non è però un morire, ma un nascere. “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,25). Nella misura che muore l’uomo vecchio, nasce in noi “l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità” (Ef 4,24). L’uomo o la donna che tutti segretamente vogliamo essere.

Dio ci aiuti a realizzare sempre di nuovo la vera impresa della vita che è la nostra conversione.

 

 

  1. B) Per lo svolgimento dell’assemblea generale.

- Dal CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA (n. 1965)

La nuova Legge o Legge evangelica è la perfezione quaggiù della Legge divina, naturale e rivelata. È opera di Cristo e trova la sua espressione particolarmente nel discorso della montagna; è anche opera dello Spirito Santo e, per mezzo di lui, diventa la legge interiore della carità: “Io stipulerò con la casa d'Israele [...] un’alleanza nuova. [...] Porrò le mie leggi nella loro mente e le imprimerò nei loro cuori; sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Eb 8,8.10, cfr Ger 31,31-34).

 

I DIECI COMANDAMENTI

Con gli Ebrei, quando escono dall’Egitto, ci siamo anche noi, c’è tutta l’umanità. È Dio che cerca gli uomini, che prega l’uomo di essere ascoltato. È l’amore che arde ma non si consuma.

Dopo aver donato al suo popolo i Dieci comandamenti, attraverso la bocca dei suoi profeti, Dio preannuncia il suo diretto intervento che avverrà con la nascita e la vita di Gesù. Sembra che i Dieci comandamenti non bastino più al popolo di Dio perché il cuore, non tanto delle “pecore” quanto dei suoi pastori, si è allontanato da Lui. Ezechiele predice l’amore di Dio per le sue “pecore”: “le radunerò da tutte le nazioni, le condurrò su buoni pascoli, andrò in cerca di quella perduta, fascerò quella malata e curerò quella malata, avrò cura sia di quella forte che di quella debole”; tutte cose che dovevano fare i pastori. I Dieci comandamenti Gesù li condensa nell’unico comandamento dell’amore verso Dio e verso il prossimo. Ma come l’uomo si era allontanato dai comandamenti, facendone spesso precetti di uomini, così tende a dimenticarsi anche del comandamento di Gesù.

Nonostante alcuni teologi tendano a sminuire l’importanza dei Dieci comandamenti, possiamo certo dire che Gesù si è basato su questi sia nel suo insegnamento che nella sua vita. La Chiesa ritiene che la legge dei Dieci comandamenti possa essere una base comune per una convivenza tra i popoli di diverse culture e religioni, per una vita ben vissuta. Certo Gesù ci chiede qualcosa di più: “Vi è stato detto, ma io vi dico”. Non dobbiamo tornare dal comandamento ai comandamenti, ma conoscendo i comandamenti possiamo partire da un’ottima base per vivere in pienezza il comandamento.  

 

- Da FABIO ROSINI, Prefazione alle Catechesi dei Comandamenti di papa Francesco

 

PAROLE, NON COMANDI

Quando si citano i Dieci Comandamenti tutti pensano ad un rigurgito di legalismo e ad un passo indietro nel mondo delle imposizioni e dei divieti.

Se poi si prendono i singoli temi, come “non uccidere” o “non commettere adulterio”, ad esempio, allora scattano tutti gli all’erta dello scontro fra visioni etiche e tutte le loro fazioni implicate.

Alla notizia che il Papa avrebbe affrontato questo tema potevamo domandarci: potrà mai Francesco fare un salto indietro nel legalismo? Ma Anche: evangelico come è, quanto calcherà la mano sul richiamo alla radicalità? Ci dovevamo aspettare una serie di sferzate morali austere e salutari?

Niente di tutto questo.

Papa Francesco entra con tutt’altra prospettiva nella lettura dei Dieci Comandamenti: queste catechesi papali non sono una collezione episodica di meditazioni sui singoli comandamenti, ma un percorso unitario che presenta le varie parti del Decalogo come un unico sentiero nella fede proposto alla Chiesa e a tutti gli uomini.

I singoli comandi fanno parte di un processo organico, prezioso, sorprendente, eppure assai ben fondato nella più pura tradizione biblica, soprattutto paolina.

La spiegazione spazia dall’analisi oggettiva delle parole di cui è composto il Decalogo allo sguardo disincantato e oggettivo sull’uomo e sul mondo. Il senso delle cose concrete si impasta con una lettura fedele del testo per cui ci si sente appoggiati su una base solida allo scopo di fare un tuffo nella realtà, non in un’analisi astratta ma vitale, reale, utile, a portata di mano. Non ci si poteva aspettare altro da questo Papa, d’altronde.

Tecnicamente queste udienze innescano il “trauma” della legge che fonda il passaggio alla grazia. L’aspetto etico non è centrale, mentre ne appare naturalmente un altro: ogni specifica parte del Decalogo viene sempre riferita al Signore Gesù. E mentre sembra che si stia parlando di noi e dei nostri doveri, ili discorso scivola verso di Lui. E siamo dolcemente guidati a guardare nella sua direzione. L’attenzione è spostata dal richiamo morale al volgere “lo sguardo verso colui che hanno trafitto” (Gv 19,37), ma l’effetto non è il disimpegno. Tutt’altro.

Piano piano e sempre più intensamente capiamo che il Decalogo ci conduce, come dice il

Santo Padre nell’ultima catechesi, davanti ad una “radiografia” di Gesù, perché Lui è quella vita di cui questi comandi parlano, Lui è colui che vive l’esistenza tratteggiata da questo antico testo. Il Decalogo è quindi, dice sempre il Papa, una sorta di “negativo fotografico che lascia apparire il suo volto – come nella sacra Sindone”.

E così volta per volta, mentre capiamo meglio il contenuto del Decalogo, in realtà conosciamo meglio Cristo, lo guardiamo sotto una prospettiva più luminosa.

Eppure noi non restiamo fuori del discorso, ma percepiamo sempre meglio qualcosa che nel nostro intimo corrisponde a quel Volto. Come se tutto quel che vien detto ci risuonasse nostro, non estraneo, ma consono, interiormente riconoscibile come vero. 

È il nostro cuore. È la nostra voglia di vivere e di amare, di essere liberi, autentici, adulti, amorevoli, fedeli, generosi, sinceri e belli. La legge, scritta su due tavole di pietra, la ritroviamo scritta dentro di noi, come risvegliata. E non per suscitare un dovere ma un desiderio. Non per costringerci dentro uno schema ma per permetterci di essere, fino in fondo, noi stessi.

Quel che regolarmente appare nell’analisi di ogni comandamento, infatti, non è la negazione della formulazione ma l’affermazione che gli è sottesa, e questo è importantissimo: papa Francesco non legge il Decalogo per vedere quale sia il “no” da dire, ma il “sì” da annunciare. Non è tanto importante scoprire cosa ci sia di proibito, ma cosa sia implicato di positivo e liberante.

Eppure questo processo, pur se assertivo, è comunque doloroso.

Perché niente quanto il bene sa mettere in crisi e mostrare quel che manca. Guardare una stanza pulita fa capire quanto la propria possa essere sporca. Contemplare una cosa ben fatta svela quanto c’è di mal fatto in quel che si sta combinando. E questo, per l’appunto, è amaro. Ma è un’amarezza necessaria.

In queste udienze si usano dei toni che esortano verso la bellezza, la verità e l’amore, indicando la via della vita, e suscitando come motore interiore l’attrazione verso il cambiamento e noni sensi di colpa, il fascino per il bene e non il rimorso. Ma questo nasce da un dolore, come si diceva, che è positivo, smuove e non ottunde, mette voglia e non scoraggia. Ma pur sempre dolore è: quello del bene mancante. È il cuore trafitto che prelude alla vita nuova.

È una chiave essenziale di questo pontificato: occuparsi di quel che c’è da sperare e amare, e, come direbbe papa Francesco, “misericordiare” quel che c’è da rinnegare e abbandonarlo, non rimarcarlo. Ricostruire, non accusare.

 

 

- Da PAPA FRANCESCO, Catechesi sui Comandamenti (3, del 27 giugno 2018)

 

L’AMORE DI DIO PRECEDE LA LEGGE E LE DÀ SENSO

Dt 4,32-35

… Oggi continuiamo a parlare dei comandamenti che, come abbiamo detto, più che comandamenti sono le parole di Dio al suo popolo perché cammini bene; parole amorevoli di un Padre. Le dieci Parole iniziano così: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2). Questo inizio sembrerebbe estraneo alle leggi vere e proprie che seguono. Ma non è così.

Perché questa proclamazione che Dio fa di sé e della liberazione? Perché si arriva al Monte Sinai dopo aver attraversato il Mar Rosso: il Dio di Israele prima salva, poi chiede fiducia. [1] Ossia: il Decalogo comincia dalla generosità di Dio. Dio mai chiede senza dare prima. Mai. Prima salva, prima dà, poi chiede. Così è il nostro Padre, Dio buono.

E capiamo l’importanza della prima dichiarazione: «Io sono il Signore, tuo Dio». C’è un possessivo, c’è una relazione, ci si appartiene. Dio non è un estraneo: è il tuo Dio. [2] Questo illumina tutto il Decalogo e svela anche il segreto dell’agire cristiano, perché è lo stesso atteggiamento di Gesù che dice: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi» (Gv 15,9). Cristo è l’amato dal Padre e ci ama di quell’amore. Lui non parte da sé ma dal Padre. Spesso le nostre opere falliscono perché partiamo da noi stessi e non dalla gratitudine. E chi parte da sé stesso, dove arriva? Arriva a sé stesso! È incapace di fare strada, torna su di sé. È proprio quell’atteggiamento egoistico che, scherzando, la gente dice: “Quella persona è un io, me con me, e per me”. Esce da se stesso e torna a sé.

La vita cristiana è anzitutto la risposta grata a un Padre generoso. I cristiani che seguono solo dei “doveri” denunciano di non avere una esperienza personale di quel Dio che è “nostro”. Io devo fare questo, questo, questo … Solo doveri. Ma ti manca qualcosa! Qual è il fondamento di questo dovere? Il fondamento di questo dovere è l’amore di Dio Padre, che prima dà, poi comanda. Porre la legge prima della relazione non aiuta il cammino di fede. Come può un giovane desiderare di essere cristiano, se partiamo da obblighi, impegni, coerenze e non dalla liberazione? Ma essere cristiano è un cammino di liberazione! I comandamenti ti liberano dal tuo egoismo e ti liberano perché c’è l’amore di Dio che ti porta avanti. La formazione cristiana non è basata sulla forza di volontà, ma sull’accoglienza della salvezza, sul lasciarsi amare: prima il Mar Rosso, poi il Monte Sinai. Prima la salvezza: Dio salva il suo popolo nel Mar Rosso; poi nel Sinai gli dice cosa deve fare. Ma quel popolo sa che queste cose le fa perché è stato salvato da un Padre che lo ama.

La gratitudine è un tratto caratteristico del cuore visitato dallo Spirito Santo; per obbedire a Dio bisogna anzitutto ricordare i suoi benefici. Dice SAN BASILIO: «Chi non lascia cadere nell’oblio tali benefici, si orienta verso la buona virtù e verso ogni opera di giustizia» (Regole brevi, 56). Dove ci porta tutto ciò? A fare esercizio di memoria: [3] quante cose belle ha fatto Dio per ognuno di noi! Quanto è generoso il nostro Padre celeste! Adesso io vorrei proporvi un piccolo esercizio, in silenzio, ognuno risponda nel suo cuore. Quante cose belle ha fatto Dio per me? Questa è la domanda. In silenzio ognuno di noi risponda. Quante cose belle ha fatto Dio per me? E questa è la liberazione di Dio. Dio fa tante cose belle e ci libera. 

Eppure qualcuno può sentire di non aver ancora fatto una vera esperienza della liberazione di Dio. Questo può succedere. Potrebbe essere che ci si guardi dentro e si trovi solo senso del dovere, una spiritualità da servi e non da figli. Cosa fare in questo caso? Come fece il popolo eletto. Dice il libro dell’Esodo: «Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Dio ascoltò il loro lamento, Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne diede pensiero» (Es 2,23-25). Dio pensa a me.

L’azione liberatrice di Dio posta all’inizio del Decalogo – cioè dei comandamenti - è la risposta a questo lamento. Noi non ci salviamo da soli, ma da noi può partire un grido di aiuto: “Signore salvami, Signore insegnami la strada, Signore accarezzami, Signore dammi un po’ di gioia”. Questo è un grido che chiede aiuto. Questo spetta a noi: chiedere di essere liberati dall’egoismo, dal peccato, dalle catene della schiavitù. Questo grido è importante, è preghiera, è coscienza di quello che c’è ancora di oppresso e non liberato in noi. Ci sono tante cose non liberate nella nostra anima. “Salvami, aiutami, liberami”. Questa è una bella preghiera al Signore. Dio attende quel grido, perché può e vuole spezzare le nostre catene; Dio non ci ha chiamati alla vita per rimanere oppressi, ma per essere liberi e vivere nella gratitudine, obbedendo con gioia a Colui che ci ha dato tanto, infinitamente più di quanto mai potremo dare a Lui. È bello questo. Che Dio sia sempre benedetto per tutto quello che ha fatto, fa e farà in noi!

 

  • Nella tradizione rabbinica si trova un testo illuminante in proposito: «Perché le 10 parole non sono state proclamate all’inizio della Torah? […] A che si può paragonare? A un tale che assumendo il governo di una città domandò agli abitanti: “Posso regnare su di voi?”. Ma essi risposero: “Che cosa ci hai fatto di bene perché tu pretenda di regnare su di noi?”. Allora, che fece? Costruì loro delle mura di difesa e una canalizzazione per rifornire di acqua la città; poi combatté per loro delle guerre. E quando domandò nuovamente: “Posso regnare su di voi?”, essi gli risposero: “Sì, sì”. Così pure il Luogo fece uscire Israele dall’Egitto, divise per loro il mare, fece scendere per loro la manna e salire l’acqua del pozzo, portò loro in volo le quaglie e infine combatté per loro la guerra contro Amaleq. E quando domandò loro: “Posso regnare su di voi?”, essi gli risposero:“Sì, sì”» (Il dono della Torah. Commento al decalogo di Es 20 nella

Mekilta di R. ISHAMAEL, Roma 1982, p. 49).

  • Cfr BENEDETTO XVI, enc. Deus caritas est, 17: «La storia d’amore tra Dio e l’uomo consiste appunto nel fatto che questa comunione di volontà cresce in comunione di pensiero e sentimento e, così, il nostro volere e la volontà di Dio coincidono sempre di più: la volontà di Dio non è per me una volontà estranea, che i comandamenti mi impongono dall’esterno, ma è la mia stessa volontà, in base all’esperienza che, di fatto, Dio è più intimo a me di quanto lo sia io stesso. Allora cresce l’abbandono in Dio e Dio diventa la nostra gioia».
  • Cfr Omelia nella Messa a S. Marta, 7 ottobre 2014: «[Cosa significa pregare?] È fare memoria davanti a Dio della nostra storia. Perché la nostra storia [è] la storia del suo amore verso di noi». Cfr DETTI

E FATTI DEI PADRI DEL DESERTO, Milano 1975, p. 71: «L'oblio è la radice di tutti i mali».

 

- Dalla LITURGIA, Lodi di giovedì della IV settimana di Pasqua

INVOCAZIONI

Dio Padre ha dato il suo Figlio come principio di risurrezione e di vita nuova. Nel suo nome innalziamo la nostra umile preghiera: Santifica il tuo popolo, Signore.

Nell’esodo hai guidato gli Ebrei con la colonna di fuoco, - fa’ che il Cristo sia per noi luce di vita.

Sul monte Sinai hai istruito il popolo nella tua legge, - fa’ che il Cristo risorto sia per noi oggi parola di vita.

Nel deserto hai nutrito il tuo popolo con la manna, - fa’ che il Cristo risorto sia per noi oggi pane di vita.

Hai dissetato il tuo popolo con l’acqua scaturita dalla roccia, - fa’ che il Cristo risorto doni a noi oggi colui che è Spirito di vita.