- Dal CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA (n. 1972) 

La Legge nuova è chiamata legge d’amore, perché fa agire in virtù dell’amore che lo Spirito Santo infonde, più che sotto la spinta del timore; legge di grazia, perché, per mezzo della fede e dei sacramenti, conferisce la forza della grazia per agire; legge di libertà (cfr Gc 1,25; 2,12), perché ci libera dalle osservanze rituali e giuridiche della Legge antica, ci porta ad agire spontaneamente sotto l’impulso della carità, ed infine ci fa passare dalla condizione di servo “che non sa quello che fa il suo padrone” a quella di amico di Cristo “perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15), o ancora alla condizione di figlio erede (cfr Gal 4,17.21-31; Rom 8,15).

 

QUARTO COMANDAMENTO “Onora tuo padre e tua madre”

(seconda parte)

Le autorità nella società civile

Il quarto comandamento di Dio ci prescrive anche di onorare tutti coloro che, per il nostro bene, hanno ricevuto da Dio un’autorità nella società. Mette in luce tanto i doveri di chi esercita l’autorità quanto quelli di chi ne beneficia. La pubblica autorità è tenuta a rispettare i diritti fondamentali della persona umana e le condizioni per l’esercizio della sua libertà. È dovere dei cittadini collaborare con i poteri civili all’edificazione della società in uno spirito di verità, di giustizia, di solidarietà e di libertà.

Il cittadino è obbligato in coscienza a non seguire le prescrizioni delle autorità civili quando tali precetti si oppongono alle esigenze dell’ordine morale. “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29), “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 22,21). Ogni società ispira i propri giudizi e la propria condotta ad una visione dell’uomo e del suo destino. Al di fuori della luce del Vangelo su Dio e sull’uomo, è facile che le società diventino totalitarie.

 

- Dalle Prediche di PADRE RANIERO CANTALAMESSA (Seconda predica di Quaresima, 2 marzo 2018) 

 

LA CARITÀ NON ABBIA FINZIONI” - L’ AMORE CRISTIANO

(prima parte)

Alle fonti della santità cristiana  

La sintesi biblica più completa e più compatta di una santità fondata sul kerygma è quella tracciata da san Paolo nella parte parenetica della Lettera ai Romani (capp. 12-15). All’inizio di essa l’Apostolo da una visione riassuntiva del cammino di santificazione del credente, del suo contenuto essenziale e del suo scopo: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rom 12,1-2). …

A partire dal capitolo 12 della Lettera ai Romani tutte le principali virtù cristiane, o frutti dello Spirito, sono elencati: il servizio, la carità, l’umiltà, l’obbedienza, la purezza. Non come virtù da coltivare per se stesse, ma come necessarie conseguenze dell’opera di Cristo e del battesimo. La sezione inizia con una congiunzione che da sola vale un trattato: “Vi esorto dunque…”. Quel “dunque” significa che tutto ciò che l’Apostolo dirà da questo momento in poi non è che la conseguenza di quello che ha scritto nei capitoli precedenti sulla fede in Cristo e sull’opera dello Spirito. 

Rifletteremo sulla prima virtù: la carità.

 

Un amore sincero

L’agape, o carità cristiana, non è una delle virtù, fosse pure la prima; è la forma di tutte le virtù, quella da cui “dipendono tutta la legge e i profeti” (Mt 22,40; Rom 13,10). Tra i frutti dello Spirito che l’Apostolo elenca in Galati 5,22, al primo posto troviamo l’amore: “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace…”. Ed è con esso che, coerentemente, inizia anche la parenesi sulle virtù nella Lettera ai Romani. Tutto il capitolo dodicesimo è un susseguirsi di esortazioni alla carità: “La carità non abbia finzioni [...]; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda…” (Rom 12,9ss). 

Per cogliere l’anima che unifica tutte queste raccomandazioni, l’idea di fondo, o, meglio, il “sentimento” che Paolo ha della carità bisogna partire da quella parola iniziale: “La carità non abbia finzioni!”. Essa non è una delle tante esortazioni, ma la matrice da cui derivano tutte le altre. Contiene il segreto della carità. 

Il termine originale usato da san Paolo e che viene tradotto “senza finzioni”, è anhypòkritos, cioè senza ipocrisia. Questo vocabolo è una specie di luce-spia; è, infatti, un termine raro che troviamo impiegato, nel Nuovo Testamento, quasi esclusivamente per definire l’amore cristiano. L’espressione “amore sincero” (anhypòkritos) ritorna ancora in 2Cor 6,6 e in 1Pt 1,22. Quest’ultimo testo permette di cogliere, con tutta certezza, il significato del termine in questione, perché lo spiega con una perifrasi; l’amore sincero – dice – consiste nell’amarsi intensamente “di vero cuore”.

San Paolo, dunque, con quella semplice affermazione: “la carità sia senza finzioni!”, porta il discorso alla radice stessa della carità, al cuore. Quello che si richiede dall’amore è che sia vero, autentico, non finto. Anche in ciò l’Apostolo è l’eco fedele del pensiero di Gesù; egli, infatti, aveva indicato, ripetutamente e con forza, il cuore, come il “luogo” in cui si decide il valore di ciò che l’uomo fa (cfr Mt 15,19).

Possiamo parlare di un’intuizione paolina, a riguardo della carità; essa consiste nel rivelare, dietro l’universo visibile ed esteriore della carità, fatto di opere e di parole, un altro universo tutto interiore, che è, nei confronti del primo, ciò che è l’anima per il corpo. Ritroviamo questa intuizione nell’altro grande testo sulla carità, che è 1Cor 13. Ciò che san Paolo dice lì, a osservare bene, si riferisce tutto a questa carità interiore, alle disposizioni e ai sentimenti di carità: “la carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si adira, tutto copre, tutto crede, tutto spera…”. Nulla che riguardi, per sé e direttamente, il fare del bene, o le opere di carità, ma tutto è ricondotto alla radice del volere bene. La benevolenza viene prima della beneficenza.

È l’Apostolo stesso che esplicita la differenza tra le due sfere della carità. Dice che il più grande atto di carità esteriore (il distribuire ai poveri tutte le proprie sostanze) non gioverebbe a nulla, senza la carità interiore (cfr 1Cor 13,3). Sarebbe l’opposto della carità “sincera”. La carità ipocrita, infatti, è proprio quella che fa del bene, senza voler bene, che mostra all’esterno qualcosa che non ha un corrispettivo nel cuore. In questo caso, si ha una parvenza di carità, che può, al limite, nascondere egoismo, ricerca di sé, strumentalizzazione del fratello, o anche semplice rimorso di coscienza.

Sarebbe un errore fatale contrapporre tra di loro carità del cuore e carità dei fatti, o rifugiarsi nella carità interiore, per trovare in essa una specie di alibi alla mancanza di carità fattiva. Sappiamo con quanto vigore la parola di Gesù (Mt 25), di san Giacomo (2,16s) e di san Giovanni (1Gv 3,18) spingono alla carità dei fatti. Sappiamo l’importanza che san Paolo stesso dava alle collette a favore dei poveri di Gerusalemme.

Del resto, dire che, senza la carità, “a niente mi giova” anche il dare tutto ai poveri, non significa dire che ciò non serve a nessuno e che è inutile; significa piuttosto dire che non giova “a me”, mentre può giovare al povero che la riceve. Non si tratta, dunque, di attenuare l’importanza delle opere di carità, quanto di assicurare a esse un fondamento sicuro contro l’egoismo e le sue infinite astuzie. San Paolo vuole che i cristiani siano “radicati e fondati nella carità” (Ef 3,17), cioè che la carità sia la radice e il fondamento di tutto.

Quando noi amiamo “dal cuore”, è l’amore stesso di Dio “effuso nel nostro cuore dallo Spirito Santo” (Rom 5,5) che passa attraverso di noi. L’agire umano è veramente deificato. Diventare “partecipi della natura divina” (2Pt 1,4) significa, infatti, diventare partecipi dell’azione divina, l’azione divina di amare, dal momento che Dio è amore!

Noi amiamo gli uomini non soltanto perché Dio li ama, o perché egli vuole che noi li amiamo, ma perché, donandoci il suo Spirito, egli ha messo nei nostri cuori il suo stesso amore per essi. Si spiega così perché l’Apostolo afferma subito dopo: “Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole, perché chi ama il suo simile ha adempiuto alla legge” (Rom 13,8).

Perché, ci chiediamo, un “debito”? Perché abbiamo ricevuto una misura infinita d’amore da distribuire a suo tempo tra i conservi (cfr Lc 12,42; Mt 24,45s.). Se non lo facciamo defraudiamo il fratello di qualcosa che gli è dovuto. Il fratello che si presenta alla tua porta forse ti chiede qualcosa che non sei in grado di dargli; ma se non puoi dargli quello che ti chiede, bada di non rimandarlo senza quello che gli devi, e cioè l’amore.