- Dal CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA (nn. 2030-2031)

La Chiesa, madre e maestra

È nella Chiesa, in comunione con tutti i battezzati, che il cristiano realizza la propria vocazione. Dalla Chiesa accoglie la Parola di Dio che contiene gli insegnamenti della “legge di Cristo” (Gal 6,2). Dalla Chiesa riceve la grazia dei sacramenti che lo sostengono lungo la “via”. Dalla Chiesa apprende l’esempio della santità; ne riconosce il modello e la sorgente nella santissima Vergine Maria; la riconosce nella testimonianza autentica di coloro che la vivono; la scopre nella tradizione spirituale e nella lunga storia dei santi che l’hanno preceduto e che la liturgia celebra seguendo il Santorale.

La vita morale è un culto spirituale. Noi offriamo i nostri “corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1), in seno al Corpo di Cristo, che noi formiamo, e in comunione con l’offerta della sua Eucaristia. Nella liturgia e nella celebrazione dei sacramenti, preghiera ed insegnamento si uniscono alla grazia di Cristo, per illuminare e nutrire l’agire cristiano. Come l’insieme della vita cristiana, la vita morale trova la propria fonte e il proprio culmine nel sacrificio eucaristico.

SETTIMO COMANDAMENTO “NON RUBARE”

(prima parte) La vita cristiana si sforza di ordinare a Dio e alla carità fraterna i beni di questo mondo. Il settimo comandamento prescrive la giustizia e la carità nella gestione dei beni materiali e del frutto del lavoro umano. Esige, in vista del bene comune, il rispetto della destinazione universale dei beni e del diritto di proprietà privata. Esso proibisce di prendere o di tenere ingiustamente i beni del prossimo e di arrecare danno al prossimo nei suoi beni in qualsiasi modo.

La destinazione universale e la proprietà privata dei beni

I beni della creazione sono destinati da Dio a tutto il genere umano. Tuttavia la terra è suddivisa tra gli uomini, perché sia garantita la sicurezza della loro vita, esposta alla precarietà e minacciata dalla violenza. L’appropriazione dei beni è legittima al fine di garantire la libertà e la dignità delle persone, di aiutare ciascuno a soddisfare i propri bisogni fondamentali e

i bisogni di coloro di cui ha la responsabilità. Tale appropriazione deve consentire che si manifesti una naturale solidarietà tra gli uomini. Il diritto alla proprietà privata, acquisita o ricevuta in giusto modo, non elimina l’originaria donazione della terra all’insieme dell’umanità. 

I beni di produzione - materiali o immateriali - come terreni o stabilimenti, competenze o arti, esigono le cure di chi li possiede, perché la loro fecondità vada a vantaggio del maggior numero di persone. Coloro che possiedono beni d’uso e di consumo devono usarne con moderazione, riservando la parte migliore all’ospite, al malato, al povero.

L’autorità politica ha il diritto e il dovere di regolare il legittimo esercizio del diritto di proprietà in funzione del bene comune (cfr IBID., 71; GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 42; Lett. enc. Centesimus annus, 40; 48).

Il rispetto delle persone e dei loro beni

In materia economica, il rispetto della dignità umana esige la pratica della virtù della temperanza, per moderare l’attaccamento ai beni di questo mondo; della virtù della giustizia, per rispettare i diritti del prossimo e dargli ciò che gli è dovuto; e della solidarietà, seguendo la regola aurea e secondo la liberalità del Signore, il quale “da ricco che era, si è fatto povero” per noi, perché noi diventassimo “ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9).

Il settimo comandamento proibisce il furto, cioè l’usurpazione del bene altrui contro la ragionevole volontà del proprietario. Non c’è furto se il consenso può essere presunto, o se il rifiuto è contrario alla ragione e alla destinazione universale dei beni. È questo il caso della necessità urgente ed evidente, in cui l’unico mezzo per soddisfare bisogni immediati ed essenziali (nutrimento, rifugio, indumenti…) è di disporre e di usare beni altrui (cfr CONC. ECUM. VAT. II, Gaudium et spes, 69).

Ogni modo di prendere e di tenere ingiustamente i beni del prossimo, anche se non è in contrasto con le disposizioni della legge civile, è contrario al settimo comandamento. Così, tenere deliberatamente cose avute in prestito o oggetti smarriti; commettere frode nel commercio (cfr Dt 25,13-16); pagare salari ingiusti (cfr Dt 24,14-15; Gc 5,4); alzare i prezzi, speculando sull’ignoranza o sul bisogno altrui (cfr Am 8,4-6). Sono pure moralmente illeciti: la speculazione, con la quale si agisce per far artificiosamente variare la stima dei beni, in vista di trarne un vantaggio a danno di altri; la corruzione, con la quale si svia il giudizio di coloro che devono prendere decisioni in base al diritto; l’appropriazione e l’uso privato dei beni sociali di un’impresa; i lavori eseguiti male, la frode fiscale, la contraffazione di assegni e di fatture, le spese eccessive, lo sperpero. Arrecare volontariamente un danno alle proprietà private o pubbliche è contrario alla legge morale ed esige il risarcimento.

Una parte rilevante della vita economica e sociale dipende dal valore dei contratti tra le persone fisiche o morali. È il caso dei contratti commerciali di vendita o di acquisto, dei contratti d’affitto o di lavoro. Ogni contratto deve essere stipulato e applicato in buona fede. I contratti sottostanno alla giustizia commutativa, che regola gli scambi tra le persone e tra le istituzioni nel pieno rispetto dei loro diritti. La giustizia commutativa obbliga strettamente; esige la salvaguardia dei diritti di proprietà, il pagamento dei debiti e l’adempimento delle obbligazioni liberamente contrattate. Senza la giustizia commutativa, qualsiasi altra forma di giustizia è impossibile. Va distinta la giustizia commutativa dalla giustizia legale, che riguarda ciò che il cittadino deve equamente alla comunità, e dalla giustizia distributiva, che regola ciò che la comunità deve ai cittadini in proporzione alle loro prestazioni e ai loro bisogni.  

In forza della giustizia commutativa, la riparazione dell’ingiustizia commessa esige la restituzione al proprietario di ciò di cui è stato derubato. Gesù fa l’elogio di Zaccheo per il suo proposito: “Se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto” (Lc 19,8). Coloro che, direttamente o indirettamente, si sono appropriati di un bene altrui, sono tenuti a restituirlo, o, se la cosa non c’è più, a rendere l’equivalente in natura o in denaro, come anche a corrispondere i frutti e i profitti che sarebbero stati legittimamente ricavati dal proprietario. Allo stesso modo hanno l’obbligo della restituzione, in proporzione alla loro responsabilità o al vantaggio avutone, tutti coloro che in qualche modo hanno preso parte al furto, oppure ne hanno approfittato con cognizione di causa; per esempio, coloro che l’avessero ordinato, o appoggiato, o avessero ricettato la refurtiva.

I giochi d’azzardo e le scommesse non sono in se stessi contrari alla giustizia. Diventano moralmente inaccettabili allorché privano la persona di ciò che le è necessario per far fronte ai bisogni propri e altrui. La passione del gioco rischia di diventare una grave schiavitù. Truccare le scommesse o barare nei giochi costituisce una mancanza grave, a meno che il danno causato sia tanto lieve da non poter essere ragionevolmente considerato significativo da parte di chi lo subisce.

Il settimo comandamento proibisce gli atti o le iniziative che, per qualsiasi ragione, egoistica o ideologica, mercantile o totalitaria, portano all’asservimento di esseri umani, a misconoscere la loro dignità personale, ad acquistarli, a venderli e a scambiarli come fossero merci. Ridurre le persone, con la violenza, ad un valore d’uso oppure ad una fonte di guadagno, è un peccato contro la loro dignità e i loro diritti fondamentali. San Paolo ordinava ad un padrone cristiano di trattare il suo schiavo cristiano “non più come schiavo, ma... come un fratello... come uomo..., nel Signore” (Fm 1,16).

 

Il rispetto dell’integrità della creazione

Nella creazione, gli animali, come le piante e gli esseri inanimati, sono naturalmente destinati al bene comune dell’umanità passata, presente e futura (cfr Gen 1,28-31). L’uso delle risorse minerali, vegetali e animali dell’universo non può essere separato dal rispetto delle esigenze morali. La signoria sugli esseri inanimati e sugli altri viventi accordata dal Creatore all’uomo non è assoluta; deve misurarsi con la sollecitudine per la qualità della vita del prossimo, compresa quella delle generazioni future (cfr GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 37-38).

Gli animali sono creature di Dio. Egli li circonda della sua provvida cura (cfr Mt 6,26). Con la loro semplice esistenza lo benedicono e gli rendono gloria (cfr Dn 3,79-81). Anche gli uomini devono essere benevoli verso di loro. Ci si ricorderà con quale delicatezza i santi, come san Francesco d’Assisi o san Filippo Neri, trattassero gli animali. 

Dio ha consegnato gli animali a colui che egli ha creato a sua immagine (cfr Gen 2,19-20; 9,1-4). È dunque legittimo servirsi degli animali per provvedere al nutrimento o per confezionare indumenti. Possono essere addomesticati, perché aiutino l’uomo nei suoi lavori e anche a ricrearsi negli svaghi. Le sperimentazioni mediche e scientifiche sugli animali sono pratiche moralmente accettabili, se rimangono entro limiti ragionevoli e contribuiscono a curare o salvare vite umane. È contrario alla dignità umana far soffrire inutilmente gli animali e disporre indiscriminatamente della loro vita. È pure indegno dell’uomo spendere per gli animali somme che andrebbero destinate, prioritariamente, a sollevare la miseria degli uomini. Si possono amare gli animali, ma non si devono far oggetto di quell’affetto che è dovuto soltanto alle persone.

 

- Da PAPA FRANCESCO, Catechesi sui Comandamenti (12, del 7 novembre 2018)

“NON RUBARE”

1 Tm 6,7-10a Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Continuando la spiegazione del Decalogo, oggi arriviamo alla Settima Parola: «Non rubare».

Ascoltando questo comandamento pensiamo al tema del furto e al rispetto della proprietà altrui. Non esiste cultura in cui furto e prevaricazione dei beni siano leciti; la sensibilità umana, infatti, è molto suscettibile sulla difesa del possesso.

Ma vale la pena di aprirci a una lettura più ampia di questa Parola, focalizzando il tema della proprietà dei beni alla luce della sapienza cristiana.

Nella dottrina sociale della Chiesa si parla di destinazione universale dei beni. Che cosa significa? Ascoltiamo che cosa dice il CATECHISMO: «All’inizio, Dio ha affidato la terra e le sue risorse alla gestione comune dell’umanità, affinché se ne prendesse cura, la dominasse con il suo lavoro e ne godesse i frutti. I beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano» (n. 2402). E ancora: «La destinazione universale dei beni rimane primaria, anche se la promozione del bene comune esige il rispetto della proprietà privata, del diritto ad essa e del suo esercizio» (n. 2403)[1].

La Provvidenza, però, non ha disposto un mondo “in serie”, ci sono differenze, condizioni diverse, culture diverse, così si può vivere provvedendo gli uni agli altri. Il mondo è ricco di risorse per assicurare a tutti i beni primari. Eppure molti vivono in una scandalosa indigenza e le risorse, usate senza criterio, si vanno deteriorando. Ma il mondo è uno solo! L’umanità è una sola [2]! La ricchezza del mondo, oggi, è nelle mani della minoranza, di pochi, e la povertà, anzi la miseria e la sofferenza, di tanti, della maggioranza.

Se sulla terra c’è la fame non è perché manca il cibo! Anzi, per le esigenze del mercato si arriva a volte a distruggerlo, si butta. Ciò che manca è una libera e lungimirante imprenditoria, che assicuri un’adeguata produzione, e una impostazione solidale, che assicuri un’equa distribuzione. Dice ancora il CATECHISMO: «L’uomo, usando dei beni creati, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri» (n. 2404). Ogni ricchezza, per essere buona, deve avere una dimensione sociale.

In questa prospettiva appare il significato positivo e ampio del comandamento «non rubare». «La proprietà di un bene fa di colui che lo possiede un amministratore della Provvidenza» (IBID.). Nessuno è padrone assoluto dei beni: è un amministratore dei beni. Il possesso è una responsabilità: “Ma io sono ricco di tutto…” – questa è una responsabilità che tu hai. E ogni bene sottratto alla logica della Provvidenza di Dio è tradito, è tradito nel suo senso più profondo. Ciò che possiedo veramente è ciò che so donare. Questa è la misura per valutare come io riesco a gestire le ricchezze, se bene o male; questa parola è importante: ciò che possiedo veramente è ciò che so donare. Se io so donare, sono aperto, allora sono ricco non solo in quello che io possiedo, ma anche nella generosità, generosità anche come un dovere di dare la ricchezza, perché tutti vi partecipino. Infatti se non riesco a donare qualcosa è perché quella cosa mi possiede, ha potere su di me e ne sono schiavo. Il possesso dei beni è un’occasione per moltiplicarli con creatività e usarli con generosità, e così crescere nella carità e nella libertà.

Cristo stesso, pur essendo Dio, «non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso» (Fil 2,6-7) e ci ha arricchiti con la sua povertà (cfr 2Cor 8,9).

Mentre l’umanità si affanna per avere di più, Dio la redime facendosi povero: quell’Uomo Crocifisso ha pagato per tutti un riscatto inestimabile da parte di Dio Padre, «ricco di misericordia» (Ef 2,4; cfr Gc 5,11). Quello che ci fa ricchi non sono i beni ma l’amore. Tante volte abbiamo sentito quello che il popolo di Dio dice: “Il diavolo entra dalle tasche”. Si comincia con l’amore per il denaro, la fame di possedere; poi viene la vanità: “Ah, io sono ricco e me ne vanto”; e, alla fine, l’orgoglio e la superbia. Questo è il modo di agire del diavolo in noi. Ma la porta d’entrata sono le tasche.

Cari fratelli e sorelle, ancora una volta Gesù Cristo ci svela il senso pieno delle Scritture. «Non rubare» vuol dire: ama con i tuoi beni, approfitta dei tuoi mezzi per amare come puoi. Allora la tua vita diventa buona e il possesso diventa veramente un dono. Perché la vita non è il tempo per possedere ma per amare. Grazie.

  • Cfr Enc. Laudato si’, 67: «Ogni comunità può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla e garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future. In definitiva, “del Signore è la terra” (Sal 24,1), a Lui appartiene “la terra e quanto essa contiene” (Dt 10,14). Perciò Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti” (Lv 25,23)».
  • Cfr SAN PAOLO VI, Enc. Populorum progressio, 17: «Ma ogni uomo è membro della società: appartiene all’umanità intera. Non è soltanto questo o quell’uomo, ma tutti gli uomini sono chiamati a tale sviluppo plenario. […] Eredi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro dei nostri contemporanei, noi abbiamo degli obblighi verso tutti, e non possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi ad ingrandire la cerchia della famiglia umana. La solidarietà universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere».

 

- Dalle Prediche di PADRE RANIERO CANTALAMESSA (Quarta di Quaresima del 16 marzo 2018)

LA OBBEDIENZA A DIO NELLA VITA CRISTIANA

(prima parte)

Il filo dall’alto

Nel delineare i tratti, o le virtù, che devono brillare nella vita dei rinati dallo Spirito, dopo aver parlato della carità e dell’umiltà, san Paolo, nel capitolo 13 della Lettera ai Romani, arriva a parlare anche dell’obbedienza: “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordinamento voluto da Dio” (Rm 13,1ss).

Il seguito del brano, che parla della spada e dei tributi, come pure il confronto con altri testi del Nuovo Testamento sullo stesso argomento (cfr Tt 3,1; 1Pt 2,13-15), indicano con tutta chiarezza che l’Apostolo non parla qui dell’autorità in genere e di ogni autorità, ma solo dell’autorità civile e statale. San Paolo tratta di un aspetto particolare dell’obbedienza che era particolarmente sentito nel momento in cui scriveva e, forse, dalla comunità cui scriveva.

Era il momento in cui stava maturando, in seno al giudaismo palestinese, la rivolta zelota contro Roma che si concluderà, pochi anni dopo, con la distruzione di Gerusalemme. Il cristianesimo era nato dal giudaismo; molti membri della comunità cristiana, anche di Roma, erano ebrei convertiti. Il problema se obbedire o no allo stato romano si poneva, indirettamente, anche per i cristiani.

La Chiesa apostolica era davanti a una scelta decisiva. San Paolo, come del resto tutto il Nuovo Testamento, risolve il problema alla luce dell’atteggiamento e delle parole di Gesù, specialmente della parola sul tributo a Cesare (cfr Mc 12,17). Il Regno predicato da Cristo “non è di questo mondo”, non è, cioè, di natura nazionale e politica. Può, perciò, vivere sotto qualsiasi regime politico, accettandone i vantaggi (come era la cittadinanza romana), ma insieme anche le leggi. Il problema viene, insomma, risolto nel senso dell’obbedienza allo stato.

L’obbedienza allo stato è una conseguenza e un aspetto di un’obbedienza ben più importante e comprensiva che l’Apostolo chiama “l’obbedienza al Vangelo” (cfr Rm 10,16). Il severo ammonimento dell’Apostolo mostra che pagare le tasse e in genere compiere il proprio dovere verso la società non è solo un dovere civile, ma anche un dovere morale e religioso. È una esigenza del precetto dell’amore del prossimo. Lo stato non è una entità astratta; è la comunità di persone che lo compongono. Se io non pago le tasse, se deturpo l’ambiente, se trasgredisco le regole del traffico, io danneggio e mostro di disprezzare il prossimo. Su questo punto noi italiani (e forse non solo noi) dovremmo rivedere e aggiungere qualche domande ai nostri esami di coscienza tradizionali.  

Tutto ciò, come si vede, è molto attuale. Ma noi non possiamo limitare il discorso sull’obbedienza a questo solo aspetto dell’obbedienza allo stato. San Paolo ci indica il posto in cui si colloca il discorso cristiano sull’obbedienza, ma non ci dice, in questo solo testo, tutto quello che si può dire di tale virtù. Egli tira qui le conseguenze di principi posti in precedenza, nella stessa Lettera ai Romani e anche altrove, e noi dobbiamo andare alla ricerca di tali principi per fare un discorso sull’obbedienza che sia utile e attuale per noi oggi.

Dobbiamo andare alla scoperta dell’obbedienza “essenziale”, dalla quale scaturiscono tutte le obbedienze particolari, compresa quella alle autorità civili. C’è infatti un’obbedienza che riguarda tutti – superiori e sudditi, religiosi e laici –, che è la più importante di tutte, che regge e vivifica tutte le altre, e questa obbedienza non è l’obbedienza dell’uomo all’uomo, ma l’obbedienza dell’uomo a Dio.

Dopo il Concilio Vaticano II qualcuno scrisse: “Se c’è un problema dell’obbedienza oggi, esso non è quello della docilità diretta allo Spirito Santo – alla quale, anzi, ognuno mostra di appellarsi volentieri – ma è piuttosto quello della sottomissione a una gerarchia, a una legge e a un’autorità umanamente espresse”. Sono convinto anch’io che sia così. Ma è proprio per rendere possibile di nuovo questa obbedienza concreta alla legge e all’autorità visibile che dobbiamo ripartire dall’obbedienza a Dio e al suo Spirito.

L’obbedienza a Dio è come “il filo dall’alto” che regge la splendida tela del ragno appesa a una siepe. Scendendo dall’alto mediante il filo che egli stesso produce, il ragno costruisce la sua tela, perfetta e tesa a ogni angolo. Tuttavia quel filo dall’alto che è servito a costruire la tela non viene troncato una volta terminata l’opera, ma resta. Anzi, è esso che, dal centro, sorregge tutto l’intreccio; senza di esso tutto si affloscia. Se si spezza uno dei fili laterali (io ne ho fatto una volta la prova), il ragno accorre e ripara velocemente la sua tela, ma appena viene tagliato quel filo dall’alto si allontana: non c’è più nulla da fare. 

Avviene qualcosa di simile a proposito della trama delle autorità e delle obbedienze in una società, in un ordine religioso e nella Chiesa. Ognuno di noi vive in una fitta tela di dipendenze: dalle autorità civili, da quelle ecclesiastiche; in queste ultime, dal superiore locale, dal vescovo, dalla Congregazione del clero o dei religiosi, dal Papa. L’obbedienza a Dio è il filo dall’alto: tutto è costruito su di essa, ma essa non può essere dimenticata neppure dopo che è finita la costruzione. In caso contrario, tutto si ripiega su se stesso e non si capisce più perché si deve obbedire.

L’obbedienza di Cristo

È relativamente semplice scoprire la natura e l’origine dell’obbedienza cristiana: basta vedere in base a quale concezione dell’obbedienza Gesù è definito, dalla Scrittura, “l’obbediente”. Scopriamo subito, in questo modo, che il vero fondamento dell’obbedienza cristiana non è un’idea di obbedienza, ma è un atto di obbedienza; non è il principio astratto di Aristotele secondo cui “l’inferiore deve sottostare al superiore”, ma è un evento; non si trova nella “retta ragione”, ma nel kerigma, e tale fondamento è che Cristo “si è fatto obbediente fino alla morte” (Fil 2,8); che Gesù “imparò l’obbedienza dalle cose che patì e reso perfetto divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,8-9).

Il centro luminoso, da cui prende luce tutto il discorso sull’obbedienza nella Lettera ai Romani, è Rm 5,19: “Per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti”. Chi conosce il posto che occupa, nella Lettera ai Romani, la giustificazione, può conoscere, da questo testo, il posto che vi occupa l’obbedienza! 

Cerchiamo di conoscere la natura di quell’atto di obbedienza su cui è fondato il nuovo ordine; cerchiamo di conoscere, in altre parole, in che è consistita l’obbedienza di Cristo. Gesù, da bambino, obbedì ai genitori; poi, da grande, si sottomise alla legge mosaica, al Sinedrio, a Pilato. San Paolo però non pensa a nessuna di queste obbedienze; pensa invece all’obbedienza di Cristo al Padre.

L’obbedienza di Cristo è considerata l’esatta antitesi della disobbedienza di Adamo: “Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Rm 5,19; cfr 1Cor 15,22). Ma a chi disobbedì Adamo? Non certo ai genitori, all’autorità, alle leggi. Disobbedì a Dio. All’origine di tutte le disobbedienze c’è una disobbedienza a Dio e all’origine di tutte le obbedienze c’è l’obbedienza a Dio.

L’obbedienza ricopre tutta la vita di Gesù. Se san Paolo e la Lettera agli Ebrei mettono in luce il posto dell’obbedienza nella morte di Gesù, san Giovanni e i Sinottici completano il quadro, mettendo in luce il posto che l’obbedienza ebbe nella vita di Gesù, nel suo quotidiano. “Mio cibo – dice Gesù nel Vangelo di Giovanniè fare la volontà del Padre” e “Io faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Gv 4,34; 8,29). La vita di Gesù è come guidata da una scia luminosa formata dalle parole scritte per lui nella Bibbia: “Sta scritto… Sta scritto”. Così vince le tentazioni nel deserto. Gesù desume dalle Scritture il “si deve” (dei) che regge tutta la sua vita.

La grandezza dell’obbedienza di Gesù, oggettivamente si misura “dalle cose che patì” e soggettivamente dall’amore e dalla libertà con cui obbedì. In lui rifulge in grado sommo l’obbedienza filiale. Anche nei momenti più estremi, come quando il Padre gli porge il calice della passione da bere, sulle sue labbra non si spegne mai il grido filiale: “Abbà! Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, esclamò sulla croce (Mt 27,46); ma aggiunse subito, secondo Luca: “Padre, nelle tue mani affido il mio Spirito” (Lc 23,46). Sulla croce, Gesù “si abbandonò al Dio che lo abbandonava” (qualsiasi cosa si intenda con questo abbandono del Padre). Questa è l’obbedienza fino alla morte; questa è “la roccia della nostra salvezza”.