- Dal CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA (nn. 2037-2038)

La Legge di Dio, affidata alla Chiesa, è insegnata ai fedeli come cammino di vita e di verità. I fedeli hanno, quindi, il diritto (cfr CODICE DI DIRITTO CANONICO, 213) di essere istruiti intorno ai precetti divini salvifici, i quali purificano il giudizio e, mediante la grazia, guariscono la ragione umana ferita. Hanno il dovere di osservare le costituzioni e i decreti emanati dalla legittima autorità della Chiesa. Anche se sono disciplinari, tali deliberazioni richiedono la docilità nella carità.

Nell’opera di insegnamento e di applicazione della morale cristiana, la Chiesa ha bisogno della dedizione dei Pastori, della scienza dei teologi, del contributo di tutti i cristiani e degli uomini di buona volontà. Attraverso la fede e la pratica del Vangelo i singoli fanno un’esperienza della “vita in Cristo”, che li illumina e li rende capaci di discernere le realtà divine e umane secondo lo Spirito di Dio (cfr 1Cor 2,10-15). Così lo Spirito Santo può servirsi dei più umili per illuminare i sapienti e i più eminenti in dignità.

IL SETTIMO COMANDAMENTO “NON RUBARE” (terza parte) Giustizia e solidarietà tra le nazioni

A livello internazionale, nella nostra epoca la disuguaglianza delle risorse e dei mezzi economici è tale da provocare un vero “fossato” tra le nazioni. Da una parte vi sono coloro che possiedono e incrementano i mezzi dello sviluppo, e, dall’altra, quelli che accumulano i debiti. Varie cause, di natura religiosa, politica, economica e finanziaria danno “alla questione sociale... una dimensione mondiale” (cfr GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 14). Tra le nazioni, le cui politiche sono già interdipendenti, è necessaria la solidarietà. E questa diventa indispensabile allorché si tratta di bloccare “i meccanismi perversi” che ostacolano lo sviluppo dei paesi meno progrediti (cfr IBID., 17.45). A sistemi finanziari abusivi se non usurai, a relazioni commerciali inique tra le nazioni, alla corsa agli armamenti si deve sostituire uno sforzo comune per mobilitare le risorse verso obiettivi di sviluppo morale, culturale ed economico, “ridefinendo le priorità e le scale di valori”

(GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 35).

Le nazioni ricche hanno una grave responsabilità morale nei confronti di quelle che da se stesse non possono assicurarsi i mezzi del proprio sviluppo o ne sono state impedite in conseguenza di tragiche vicende storiche. Si tratta di un dovere di solidarietà e di carità; ed anche di un obbligo di giustizia, se il benessere delle nazioni ricche proviene da risorse che non sono state equamente pagate. L’aiuto diretto costituisce una risposta adeguata a necessità immediate, eccezionali, causate, per esempio, da catastrofi naturali, da epidemie, ecc. Ma esso non basta a risanare i gravi mali che derivano da situazioni di miseria, né a far fronte in modo duraturo ai bisogni. Occorre anche riformare le istituzioni economiche e finanziarie internazionali perché possano promuovere rapporti equi con i paesi meno sviluppati (cfr GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 16). È necessario sostenere lo sforzo dei paesi poveri che sono alla ricerca del loro sviluppo e della loro liberazione (cfr GIOVANNI PAOLO II, Lett enc. Centesimus annus, 26). Questi principi vanno applicati in una maniera tutta particolare nell’ambito del lavoro agricolo. I contadini, specialmente nel Terzo Mondo, costituiscono la massa preponderante dei poveri.

Alla base di ogni sviluppo completo della società umana sta la crescita del senso di Dio e della conoscenza di sé. Allora lo sviluppo moltiplica i beni materiali e li mette al servizio della persona e della sua libertà. Riduce la miseria e lo sfruttamento economico. Fa crescere il rispetto delle identità culturali e l’apertura alla trascendenza (cfr GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 32; Lett. enc. Centesimus annus, 51). 

Non spetta ai pastori della Chiesa intervenire direttamente nell’azione politica e nell’organizzazione della vita sociale. Questo compito fa parte della vocazione dei fedeli laici, i quali operano di propria iniziativa insieme con i loro concittadini. L’azione sociale può implicare una pluralità di vie concrete; comunque, avrà sempre come fine il bene comune e sarà conforme al messaggio evangelico e all’insegnamento della Chiesa. Compete ai fedeli laici “animare, con impegno cristiano, le realtà temporali, e, in esse, mostrare di essere testimoni e operatori di pace e di giustizia” (GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 47; 42). 

L’amore per i poveri

Dio benedice coloro che soccorrono i poveri e disapprova coloro che se ne disinteressano. Fin dall’Antico Testamento tutte le varie disposizioni giuridiche (anno di remissione, divieto di prestare denaro a interesse e di trattenere un pegno, obbligo di dare la decima, di pagare ogni giorno il salario ai lavoratori giornalieri, diritto di racimolare e spigolare) come successive parole dei profeti sono esortazioni ad aiutare chi ha bisogno. Gesù fa sua questa parola: “I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me” (Gv 12,8), e invita a riconoscere la sua presenza nei poveri che sono suoi fratelli (cfr Mt 25,40). 

Allorché “ai poveri è predicata la buona novella” (Mt 11,5; cfr Lc 4,18), è segno che Cristo è presente. “L'amore della Chiesa per i poveri... appartiene alla sua costante tradizione” (GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 57). L’amore per i poveri è anche una delle motivazioni del dovere di lavorare per far parte dei beni “a chi si trova in necessità” (Ef 4,28). Tale amore per i poveri non riguarda soltanto la povertà materiale, ma anche le numerose forme di povertà culturale e religiosa (cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 57).

L’amore per i poveri è inconciliabile con lo smodato amore per le ricchezze o con il loro uso egoistico. SAN GIOVANNI CRISOSTOMO lo ricorda con forza: “Non condividere con i poveri i propri beni è defraudarli e togliere loro la vita. Non sono nostri i beni che possediamo: sono dei poveri” (In Lazarum, 1, 6). “Siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia perché non si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia” (CONC. ECUM. VAT. II, Apostolicam actuositatem, 8). “Quando doniamo ai poveri le cose indispensabili, non facciamo loro delle elargizioni personali, ma rendiamo loro ciò che è loro.

Più che compiere un atto di carità, adempiamo un dovere di giustizia” (SAN GREGORIO MAGNO, Regula pastoralis, 3, 21).

Le opere di misericordia sono le azioni caritatevoli con le quali soccorriamo il nostro prossimo nelle sue necessità corporali e spirituali (cfr Is 58,6-7; Eb 13,3). “Nelle sue molteplici forme - spogliamento materiale, ingiusta oppressione, malattie fisiche e psichiche, e infine la morte - la miseria umana è il segno evidente della naturale condizione di debolezza, in cui l’uomo si trova dopo il primo peccato, e del suo bisogno di salvezza. È per questo che essa ha attirato la compassione di Cristo Salvatore, il quale ha voluto prenderla su di sé, e identificarsi con "i più piccoli tra i fratelli". È pure per questo che gli oppressi dalla miseria sono oggetto di un amore di preferenza da parte della Chiesa, la quale, fin dalle origini, malgrado l’infedeltà di molti dei suoi membri, non ha cessato di impegnarsi a sollevarli, a difenderli e a liberarli. Ciò ha fatto con innumerevoli opere di beneficenza, che rimangono sempre e dappertutto indispensabili” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Libertatis conscientia, 68).

I santi hanno riconosciuto Cristo nei poveri. Il giorno in cui sua madre la rimproverò di accogliere in casa poveri e infermi, SANTA ROSA DA LIMA senza esitare le disse: “Quando serviamo i poveri e i malati, serviamo Gesù. Non dobbiamo lasciar mancare l’aiuto al nostro prossimo, perché nei nostri fratelli serviamo Gesù” (P. Hansen, Vita mirabilis).

 

- Dalle Prediche di PADRE RANIERO CANTALAMESSA (Quarta di Quaresima del 16 marzo 2018)

LA OBBEDIENZA A DIO NELLA VITA CRISTIANA

(terza parte) Una obbedienza aperta sempre e a tutti

L’obbedienza a Dio è l’obbedienza che possiamo fare sempre. Di obbedienze a ordini e autorità visibili, capita di farne solo ogni tanto, tre o quattro volte in tutto nella vita, parlando di obbedienze di una certa serietà. Di obbedienze a Dio, invece, ce ne sono tante. Più si obbedisce, più si moltiplicano gli ordini di Dio, perché egli sa che questo è il dono più bello che può fare, quello che fece al suo diletto Figlio Gesù. Quando Dio trova un’anima decisa a obbedire, allora egli prende in mano la sua vita, come si prende il timone di una barca, o come si prendono in mano le redini di un carro. Egli diventa sul serio, e non solo in teoria, “Signore” cioè colui che “regge”, che “governa” determinando, si può dire, momento per momento, i gesti, le parole di quella persona, il suo modo di impiegare il tempo, tutto.

Ho detto che l’obbedienza a Dio è qualcosa che si può fare sempre. Devo aggiungere che è anche l’obbedienza che possiamo fare tutti, sia sudditi che superiori. Si è soliti dire che bisogna saper obbedire per poter comandare. Non è solo un principio di buon senso; c’è una ragione teologica in ciò. Significa che la vera fonte dell’autorità spirituale risiede più nell’obbedienza che nel titolo o nell’ufficio che uno ricopre. Concepire l’autorità come obbedienza significa non contentarsi della sola autorità, ma aspirare anche a quell’autorevolezza che viene dal fatto che Dio è dietro di te e appoggia la tua decisione. Significa avvicinarsi a quel tipo di autorità che si sprigionava dall’agire di Cristo e spingeva la gente a chiedersi meravigliata: “Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità” (Mc 1,27).

Si tratta in realtà di un’autorità diversa, di un potere reale ed efficace, non soltanto nominale o d’ufficio, un potere intrinseco, non estrinseco. Quando un ordine viene dato da un genitore o da un superiore che si sforza di vivere nella volontà di Dio, che ha pregato prima e non ha interessi personali da difendere, ma solo il bene del fratello o del proprio bambino, allora l’autorità stessa di Dio fa da contrafforte a tale ordine o decisione. Se sorge contestazione, Dio dice al suo rappresentante ciò che disse un giorno a Geremia: “Ecco io faccio di te come una fortezza, come un muro di bronzo [...]. Ti muoveranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te” (Ger 1,18s). SANT’IGNAZIO D’ANTIOCHIA dava questo saggio consiglio a un suo discepolo e collega di episcopato, san Policarpo: “Nulla si faccia senza il tuo consenso, ma tu non fare nulla senza il consenso di Dio” (Lettera a Policarpo 4,1).

Questa via dell’obbedienza a Dio non ha nulla, per sé, di mistico e di straordinario, ma è aperta a tutti i battezzati. Essa consiste nel “presentare le questioni a Dio” (cfr Es 18,19). Io posso decidere da solo di fare o non fare un viaggio, un lavoro, una visita, una spesa e poi, una volta deciso, pregare Dio per la buona riuscita della cosa. Ma se nasce in me l’amore dell’obbedienza a Dio, allora farò diversamente: chiederò prima a Dio con il mezzo semplicissimo che tutti abbiamo a disposizione – e che è la preghiera – se è sua volontà che io faccia quel viaggio, quel lavoro, quella visita, quella spesa, e poi farò, o non farò, la cosa, ma essa sarà ormai, in ogni caso, un atto di obbedienza a Dio, e non più una mia libera iniziativa.

Normalmente, è chiaro che non udrò, nella mia breve preghiera, nessuna voce e non avrò nessuna risposta esplicita sul da farsi, o almeno non è necessario che l’abbia perché ciò che faccio sia obbedienza. Così facendo, infatti, ho sottoposto la questione a Dio, mi sono spogliato della mia volontà, ho rinunciato a decidere da solo e ho dato a Dio una possibilità per intervenire, se vuole, nella mia vita. Qualunque cosa ora deciderò di fare, regolandomi con i criteri ordinari di discernimento, sarà obbedienza a Dio. Così si cedono le redini della propria vita a Dio! La volontà di Dio penetra, in questo modo, sempre più capillarmente nel tessuto di una esistenza, impreziosendola e facendo di essa un “sacrificio vivente, santo e a Dio gradito” (Rm 12,1).

Terminiamo con le parole di un salmo che ci permette di trasformare in preghiera l’insegnamento datoci dall’Apostolo. Un giorno che era pieno di gioia e di riconoscenza per i benefici del suo Dio (“Ho sperato, ho sperato nel Signore ed egli su di me si è chinato [...]; mi ha tratto dalla fossa della morte…”), in un vero stato di grazia, il Salmista si domanda cosa può fare per rispondere a tanta bontà di Dio: offrire olocausti, vittime? Capisce subito che non è questo che Dio vuole da lui; è troppo poco per esprimere quello che ha nel cuore. Allora ecco l’intuizione e la rivelazione: quello che Dio desidera da lui è una decisione generosa e solenne di compiere, d’ora in poi, tutto quello che Dio vuole da lui, di obbedirgli in tutto. Allora egli esclama:

Ecco io vengo.

Sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere.

Mio Dio questo io desidero,

la tua legge è nel profondo del mio cuore”.

Entrando nel mondo, Gesù ha fatto sue queste parole dicendo: “Ecco, io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà(Eb 10,5ss). Ora tocca a noi. Tutta la vita, giorno per giorno, può essere vissuta all’insegna delle parole: “Ecco, io vengo, o Dio, a fare la tua volontà!”. Al mattino, nell’iniziare una nuova giornata, poi nel recarci a un appuntamento, a un incontro, nell’iniziare un nuovo lavoro: “Ecco, io vengo, o Dio, a fare la tua volontà!”.

Noi non sappiamo cosa, quel giorno, quell’incontro, quel lavoro ci riserverà; sappiamo una cosa sola con certezza: che vogliamo fare, in essi, la volontà di Dio. Noi non sappiamo cosa riserva a ciascuno di noi il nostro avvenire; ma è bello incamminarci verso di esso con questa parola sulle labbra: “Ecco, io vengo, o Dio, a fare la tua volontà!”.