- Dal CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA (nn. 2039-2040)
I ministeri vanno esercitati in uno spirito di servizio fraterno e di dedizione alla Chiesa, in nome del Signore (cfr Rm 12,8-11). Al tempo stesso la coscienza di ognuno, nel suo giudizio morale sui propri atti personali, deve evitare di rimanere chiusa entro i limiti di una considerazione individuale. Come meglio può, deve aprirsi alla considerazione del bene di tutti, quale è espresso nella legge morale, naturale e rivelata, e conseguentemente nella legge della Chiesa e nell'insegnamento autorizzato del Magistero sulle questioni morali. Non bisogna opporre la coscienza personale e la ragione alla legge morale o al Magistero della Chiesa.
In tal modo può svilupparsi tra i cristiani un vero spirito filiale nei confronti della Chiesa. Esso è il normale sviluppo della grazia battesimale, che ci ha generati nel seno della Chiesa e ci ha resi membri del corpo di Cristo. La Chiesa, nella sua sollecitudine materna, ci accorda la misericordia di Dio, che trionfa su tutti i nostri peccati e agisce soprattutto nel sacramento della Riconciliazione. Come madre premurosa, attraverso la sua liturgia, giorno dopo giorno, ci elargisce anche il nutrimento della Parola e dell'Eucaristia del Signore.
OTTAVO COMANDAMENTO “NON DIRE FALSA TESTIMONIANZA”
(prima parte) L’ottavo comandamento deriva dalla vocazione del popolo santo ad essere testimone del suo Dio il quale è e vuole la verità. Le offese alla verità esprimono, con parole o azioni, un rifiuto ad impegnarsi nella rettitudine morale: sono infedeltà a Dio e, in tal senso, scalzano le basi dell’Alleanza.
Vivere nella verità
L’uomo è naturalmente proteso alla verità. Ha il dovere di rispettarla e di
attestarla: “A motivo della loro dignità tutti gli uomini, in quanto sono persone, ... sono spinti dalla loro stessa natura e tenuti per obbligo morale a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure tenuti ad aderire alla verità conosciuta e ordinare tutta la loro vita secondo le esigenze della verità” (CONC. ECUM. VAT. II, Dignitatis humanae, 2).
La verità in quanto rettitudine dell’agire e del parlare umano è detta veracità, sincerità o franchezza. La verità o veracità è la virtù che consiste nel mostrarsi veri nei propri atti e nell’affermare il vero nelle proprie parole, rifuggendo dalla doppiezza, dalla simulazione e dall’ipocrisia. “Sarebbe impossibile la convivenza umana se gli uomini non avessero confidenza reciproca, cioè se non si dicessero la verità” (SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae). La virtù della verità dà giustamente all’altro quanto gli è dovuto. La veracità rispetta il giusto equilibrio tra ciò che deve essere manifestato e il segreto che deve essere conservato: implica l’onestà e la discrezione. Per giustizia, “un uomo deve onestamente manifestare a un altro la verità” (IBID.).
Rendere testimonianza alla verità
Il discepolo di Cristo accetta di “vivere nella verità”, cioè nella semplicità di una vita conforme all’esempio del Signore e rimanendo nella sua verità. “Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità” (1Gv 1,6).
Davanti a Pilato Cristo proclama di essere “venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). Il cristiano non deve vergognarsi “della testimonianza da rendere al Signore” (2Tm 1,8). Nelle situazioni in cui si richiede che si testimoni la fede, il cristiano la professa senza equivoci, come ha fatto san Paolo davanti ai suoi giudici. Al credente è data la grazia di “conservare una coscienza irreprensibile davanti a Dio e davanti agli uomini” (At 24,16).
Il dovere dei cristiani di prendere parte alla vita della Chiesa li spinge ad agire come testimoni del Vangelo. Tale testimonianza è trasmissione della fede in parole e opere. La testimonianza è un atto di giustizia che fa conoscere la verità (cfr Mt 18,16). “Tutti i cristiani, dovunque vivono, sono tenuti a manifestare con l’esempio della vita e con la testimonianza della parola l’uomo nuovo, che hanno rivestito col Battesimo, e la forza dello Spirito Santo, dal quale sono stati rinvigoriti con la Confermazione” (CONC. ECUM. VAT. II, Ad gentes, 11).
Il martirio è la suprema testimonianza resa alla verità della fede; il martire è un testimone che arriva fino alla morte. Egli rende testimonianza a Cristo, morto e risorto, al quale è unito dalla carità. Rende testimonianza alla verità della fede e della dottrina cristiana. Affronta la morte con un atto di fortezza. “Lasciate che diventi pasto delle belve. Solo così mi sarà concesso di raggiungere Dio”
(SANT’IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Epistula ad Romanos, 4,1). Con la più grande cura la Chiesa ha raccolto i ricordi di coloro che, per testimoniare la fede, sono giunti sino alla fine. Si tratta degli Atti dei Martiri. Costituiscono gli archivi della Verità scritti a lettere di sangue: “Nulla mi gioverebbe tutto il mondo e tutti i regni di quaggiù; per me è meglio morire per [unirmi a] Gesù Cristo, che essere re sino ai confini della terra. Io cerco colui che morì per noi; io voglio colui che per noi risuscitò. Il momento in cui sarò partorito è imminente…” (IBID.). “Ti benedico per avermi giudicato degno di questo giorno e di quest’ora, degno di essere annoverato tra i tuoi martiri... Tu hai mantenuto la tua promessa, o Dio della fedeltà e della verità. Per questa grazia e per tutte le cose, ti lodo, ti benedico, ti rendo gloria per mezzo di Gesù Cristo, sacerdote eterno e onnipotente, Figlio tuo diletto. Per lui, che vive e regna con te e con lo Spirito, sia gloria a te, ora e nei secoli dei secoli. Amen” (SAN POLICARPO, Lettere).
Le offese alla verità
La falsa testimonianza e lo spergiuro sono affermazioni pubbliche contrarie alla verità; rivestono una gravità particolare. Fatta davanti ad un tribunale, diventa una falsa testimonianza (cfr Pr 19,9). Quando la si fa sotto giuramento, è uno spergiuro. Simili modi di comportarsi possono contribuire sia alla condanna di un innocente sia alla assoluzione di un colpevole, oppure ad aggravare la pena in cui è incorso l’accusato (cfr Pr 18,5). Compromettono gravemente l’esercizio della giustizia e l’equità di una sentenza pronunciata dai giudici.
Il rispetto della reputazione delle persone rende illecito ogni atteggiamento ed ogni parola che possano causare un ingiusto danno (cfr CODICE DI DIRITTO CANONICO, 220).
Si rende colpevole di giudizio temerario colui che, anche solo tacitamente, ammette come vera, senza sufficiente fondamento, una colpa morale nel prossimo. Per evitarlo, ciascuno cercherà di interpretare, per quanto è possibile, in un senso favorevole i pensieri, le parole e le azioni del suo prossimo: “Ogni buon cristiano deve essere più disposto a salvare l’affermazione del prossimo che a condannarla; e se non la possa salvare, cerchi di sapere quale significato egli le dia; e, se le desse un significato erroneo, lo corregga con amore; e, se non basta, cerchi tutti i mezzi adatti perché, dandole il significato giusto, si salvi” (SANT’IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, 22).
Si rende colpevole di maldicenza colui che, senza un motivo oggettivamente valido, rivela i difetti e le mancanze altrui a persone che li ignorano (cfr Sir 21,28); di calunnia colui che, con affermazioni contrarie alla verità, nuoce alla reputazione degli altri e dà occasione a erronei giudizi sul loro conto. Maldicenze e calunnie distruggono la reputazione e l’onore del prossimo. Ora, l’onore è la testimonianza sociale resa alla dignità umana, e ognuno gode di un diritto naturale all’onore del proprio nome, alla propria reputazione e al rispetto. Ecco perché la maldicenza e la calunnia offendono le virtù della giustizia e della carità.
È da bandire qualsiasi parola o atteggiamento che, per lusinga, adulazione o compiacenza, incoraggi e confermi altri nella malizia dei loro atti e nella perversità della loro condotta. L’adulazione è una colpa grave se si fa complice di vizi o di peccati gravi. Il desiderio di rendersi utile o l’amicizia non giustificano una doppiezza del linguaggio. L’adulazione è un peccato veniale quando nasce soltanto dal desiderio di riuscire piacevole, evitare un male, far fronte ad una necessità, conseguire vantaggi leciti.
La iattanza o millanteria costituisce una colpa contro la verità. Ciò vale anche per l’ironia che tende ad intaccare l’apprezzamento di qualcuno caricaturando, in maniera malevola, un qualche aspetto del suo comportamento.
“La menzogna consiste nel dire il falso con l’intenzione di ingannare” (SANT'AGOSTINO). Nella menzogna il Signore denuncia un’opera diabolica: “Voi ... avete per padre il diavolo ... non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44). La menzogna è l’offesa più diretta alla verità. Mentire è parlare o agire contro la verità per indurre in errore. Ferendo il rapporto dell’uomo con la verità e con il suo prossimo, la menzogna offende la relazione fondamentale dell’uomo e della sua parola con il Signore. La gravità della menzogna si commisura alla natura della verità che essa deforma, alle circostanze, alle intenzioni del mentitore, ai danni subiti da coloro che ne sono le vittime. Se la menzogna, in sé, non costituisce che un peccato veniale, diventa mortale quando lede in modo grave le virtù della giustizia e della carità.
Ogni colpa commessa contro la giustizia e la verità impone il dovere di riparazione, anche se il colpevole è stato perdonato. Quando è impossibile riparare un torto pubblicamente, bisogna farlo in privato; a colui che ha subito un danno, qualora non possa essere risarcito direttamente, va data soddisfazione moralmente, in nome della carità. Tale dovere di riparazione riguarda anche le colpe commesse contro la reputazione altrui. La riparazione, morale e talvolta materiale, deve essere commisurata al danno che è stato arrecato. Essa obbliga in coscienza.
- Da PAPA FRANCESCO, Catechesi sui Comandamenti (13, del 14 novembre 2018)
«NON DIRE FALSA TESTIMONIANZA»
Mt 5,14-16 Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nella catechesi di oggi affronteremo l’Ottava Parola del Decalogo: «Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo».
Questo comandamento – dice il CATECHISMO – «proibisce di falsare la verità nelle relazioni con gli altri» (n. 2464). Vivere di comunicazioni non autentiche è grave perché impedisce le relazioni e, quindi impedisce l’amore. Dove c’è bugia non c’è amore, non può esserci amore. E quando parliamo di comunicazione fra le persone intendiamo non solo le parole, ma anche i gesti, gli atteggiamenti, perfino i silenzi e le assenze. Una persona parla con tutto quel che è e che fa. Tutti noi siamo in comunicazione, sempre. Tutti noi viviamo comunicando e siamo continuamente in bilico tra la verità e la menzogna.
Ma cosa significa dire la verità? Significa essere sinceri? Oppure esatti? In realtà, questo non basta, perché si può essere sinceramente in errore, oppure si può essere precisi nel dettaglio ma non cogliere il senso dell’insieme. A volte ci giustifichiamo dicendo: “Ma io ho detto quello che sentivo!”. Sì, ma hai assolutizzato il tuo punto di vista. Oppure: “Ho solamente detto la verità!”. Può darsi, ma hai rivelato dei fatti personali o riservati. Quante chiacchiere distruggono la comunione per inopportunità o mancanza di delicatezza! Anzi, le chiacchiere uccidono, e questo lo disse l’apostolo Giacomo nella sua Lettera. Il chiacchierone, la chiacchierona sono gente che uccide: uccide gli altri, perché la lingua uccide come un coltello. State attenti! Un chiacchierone o una chiacchierona è un terrorista, perché con la sua lingua butta la bomba e se ne va tranquillo, ma la cosa che dice quella bomba buttata distrugge la fama altrui. Non dimenticare: chiacchierare è uccidere.
Ma allora: che cos’è la verità? Questa è la domanda fatta da Pilato, proprio mentre Gesù, davanti a lui, realizzava l’ottavo comandamento (cfr Gv 18,38). Infatti le parole «Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo» appartengono al linguaggio forense. I Vangeli culminano nel racconto della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù; e questo è il racconto di un processo, dell’esecuzione della sentenza e di una inaudita conseguenza.
Interrogato da Pilato, Gesù dice: «Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità» (Gv 18,37). E questa «testimonianza» Gesù la dà con la sua passione, con la sua morte. L’evangelista Marco narra che «il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (15,39). Sì, perché era coerente, è stato coerente: con quel suo modo di morire, Gesù manifesta il Padre, il suo amore misericordioso e fedele.
La verità trova la sua piena realizzazione nella persona stessa di Gesù (cfr Gv 14,6), nel suo modo di vivere e di morire, frutto della sua relazione con il Padre. Questa esistenza da figli di Dio, Egli, risorto, la dona anche a noi inviando lo Spirito Santo che è Spirito di verità, che attesta al nostro cuore che Dio è nostro Padre (cfr Rm 8,16).
In ogni suo atto l’uomo, le persone affermano o negano questa verità. Dalle piccole situazioni quotidiane alle scelte più impegnative. Ma è la stessa logica, sempre: quella che i genitori e i nonni ci insegnano quando ci dicono di non dire bugie.
Domandiamoci: quale verità attestano le opere di noi cristiani, le nostre parole, le nostre scelte? Ognuno può domandarsi: io sono un testimone della verità, o sono più o meno un bugiardo travestito da vero? Ognuno si domandi. I cristiani non siamo uomini e donne eccezionali. Siamo, però, figli del Padre celeste, il quale è buono e non ci delude, e mette nel loro cuore l’amore per i fratelli. Questa verità non si dice tanto con i discorsi, è un modo di esistere, un modo di vivere e si vede in ogni singolo atto (cfr Gc 2,18). Quest’uomo è un uomo vero, quella donna è una donna vera: si vede. Ma perché, se non apre la bocca? Ma si comporta come vero, come vera. Dice la verità, agisce con la verità. Un bel modo di vivere per noi.
La verità è la rivelazione meravigliosa di Dio, del suo volto di Padre, è il suo amore sconfinato. Questa verità corrisponde alla ragione umana ma la supera infinitamente, perché è un dono sceso sulla terra e incarnato in Cristo crocifisso e risorto; essa è resa visibile da chi gli appartiene e mostra le sue stesse attitudini.
“Non dire falsa testimonianza” vuol dire vivere da figlio di Dio, che mai, mai smentisce se stesso, mai dice bugie; vivere da figli di Dio, lasciando emergere in ogni atto la grande verità: che Dio è Padre e ci si può fidare di Lui. Io mi fido di Dio: questa è la grande verità. Dalla nostra fiducia in Dio, che è Padre e mi ama, ci ama, nasce la mia verità e l’essere veritiero e non bugiardo.
- Dalle Prediche di PADRE RANIERO CANTALAMESSA (Prima di Quaresima del 23 febbraio 2018)
“NON CONFORMATEVI ALLA MENTALITÀ DI QUESTO MONDO” (ROM 12,2)
(prima parte)
“Non conformatevi a questo mondo, ma trasformatevi rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rom 12,2).
In una società in cui ognuno si sente investito del compito di trasformare il mondo e la Chiesa, cade questa parola di Dio che invita a trasformare se stessi. “Non conformatevi a questo mondo”: dopo queste parole ci saremmo aspettati di sentirci dire: “ma trasformatelo!”; invece ci si dice: “ma trasformatevi!”. Trasformate, sì, il mondo, ma il mondo che è dentro di voi, prima di credere di poter trasformare il mondo che è fuori di voi.
I cristiani e il mondo
Diamo anzitutto uno sguardo a come questo ideale del distacco dal mondo è stato compreso e vissuto dal Vangelo ai nostri giorni. Giova sempre tener conto delle esperienze del passato se si vogliono comprendere le esigenze del presente.
Nei vangeli sinottici la parola “mondo” (kosmos) è quasi sempre intesa in senso moralmente neutro. Preso in senso spaziale, mondo indica la terra e l’universo (“andate in tutto il mondo”), preso in senso temporale, indica il tempo o il “secolo” (aion) presente. È con Paolo e più ancora con Giovanni che la parola “mondo”, si carica di una valenza morale e viene a significare, il più delle volte, il mondo come esso è divenuto in seguito al peccato e sotto il dominio di satana, “il dio di questo mondo” (2Cor 4,4). Di qui l’esortazione di Paolo da cui siamo partiti e quella, quasi identica, di Giovanni nella sua Prima Lettera: “Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo – la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita – non viene dal Padre, ma viene dal mondo” (1Gv 2,15-16).
Tutto questo non porta mai a perdere di vista che il mondo in se stesso, nonostante tutto, è, e resta, la realtà buona creata da Dio, che Dio ama e che è venuto a salvare, non a giudicare: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
L’atteggiamento verso il mondo che Gesù propone ai suoi discepoli racchiuso in due preposizioni: essere nel mondo, ma non essere del mondo: “Io non sono più nel mondo – dice rivolto al Padre –; essi invece sono nel mondo […]. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,11.16).
Nei primi tre secoli i discepoli si mostrano ben consapevoli di questa loro posizione unica. La LETTERA A DIOGNETO, uno scritto anonimo della fine del II secolo, così descrive il sentimento che i cristiani avevano di se stessi nel mondo: “I cristiani non si differenziano dal resto degli uomini né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita. Infatti non abitano città particolari, né usano di un qualche strano linguaggio, né conducono uno speciale genere di vita […]. Abitano in città sia greche che barbare, come capita, e pur seguendo nel vestito, nel vitto e nel resto della vita le usanze del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, per ammissione di tutti, paradossale. Abitano ciascuno la loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutte le attività di buoni cittadini e accettano tutti gli oneri come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è per essi terra straniera. Come tutti gli altri si sposano e hanno figli, ma non espongono i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il talamo. Vivono nella carne, ma non secondo la carne” (V, 1-8).
Sintetizziamo al massimo il seguito della storia. Quando il cristianesimo diventa religione tollerata e poi ben presto protetta e favorita, la tensione tra il cristiano e il mondo tende inevitabilmente ad attenuarsi, perché il mondo ormai è diventato, o almeno è ritenuto, “un mondo cristiano”. Si assiste così a un duplice fenomeno. Da una parte schiere di credenti desiderosi di rimanere il sale della terra e non perdere il sapore, fuggono, anche fisicamente, dal mondo e si ritirano nel deserto. Nasce il monachesimo all’insegna del motto rivolto al monaco ARSENIO: “Fuge, tace, quiesce”, “Fuggi, taci, vivi ritirato” (cfr Vita e Detti dei Padri del deserto, p. 97).
Contemporaneamente, i pastori della Chiesa e gli spiriti più illuminati cercano di adattare l’ideale del distacco dal mondo a tutti i credenti, proponendo una fuga non materiale, ma spirituale dal mondo. SAN BASILIO in oriente e SANT’AGOSTINO in occidente conoscono il pensiero di Platone soprattutto nella versione ascetica che esso aveva preso con il discepolo Plotino. In questa atmosfera culturale era vivo l’ideale della fuga dal mondo. Si trattava però di una fuga, per così dire, in verticale, non in orizzontale, verso l’alto, non verso il deserto. Essa consiste nell’elevarsi al di sopra della molteplicità delle cose materiali e delle passioni umane, per unirsi a ciò che è divino, incorruttibile ed eterno (cfr De fuga saeculi, 1).
I Padri della Chiesa – i Cappadoci in prima linea – propongono una ascetica cristiana che risponde a questa esigenza religiosa e ne adotta il linguaggio, senza però mai sacrificare ad essa i valori propri del Vangelo. Tanto per cominciare, la fuga dal mondo da essi inculcata è opera della grazia più che dello sforzo umano. L’atto fondamentale non è alla fine del cammino, ma al suo inizio, nel battesimo. Non è perciò riservata a pochi spiriti colti, ma aperta a tutti. SANT’AMBROGIO scriverà un trattatello “Sulla fuga dal mondo”, indirizzandolo a tutti i neofiti. La separazione dal mondo che egli propone è soprattutto affettiva: “La fuga – dice – non consiste nell’abbandonare la terra, ma, rimanendo nella terra, a osservare la giustizia e la sobrietà, a rinunciare ai vizi e non all’uso degli alimenti”
(Espos. del Vang. sec. Luca, IX, 36).
Questo ideale di distacco e di fuga dal mondo accompagnerà, in forme diverse, tutta la storia della spiritualità cristiana. Una preghiera della LITURGIA lo riassume nel motto: “terrena despicere et amare caelestia”, “disprezzare le cose della terra e amare quelle del cielo”.