L’IRA
cioè il rapporto deformato con gli altri (prima parte)

Passione che amareggia l’anima

“La collera è una passione velocissima; è detta, infatti, bollore e movimento dell'animo contro chi ci ha arrecato un torto o si presume che l'abbia fatto. Nel corso di tutto il giorno la collera amareggia l'anima, ma è soprattutto durante la preghiera che essa soggioga la mente, rappre­sentandole il volto di chi ci ha rattristato. Quando essa è persistente si trasforma in risentimento” (Evagrio Pontico).

La collera, l'ira è quella passione che ci assale come un vento impetuoso, emerge come un bollore improvviso dal nostro intimo e di­vampa come un fuoco divorante, avendo come bersaglio l'altro, gli altri. Essa è per eccellenza il vizio visibile, tanto da sfigurare chi ne è preda, producendo anche effetti psicosomatici: fa per­dere il fiato, genera una sensazione di soffoca­mento, e non è dunque casuale che la Bibbia per indicarla si serva dell'espressione «brevità di re­spiro» (Pr 14,17). È significativo che la collera sia una reazione che condividiamo con gli animali, i quali la manifestano soprattut­to quando si sentono aggrediti; ebbene, se non riusciamo a dominare tale moto istintivo, giusto o sbagliato che sia sul momento, esso rischia di tramutarsi in un risentimento permanente e nella memoria di un’offesa mai perdonata, con conseguenze nefaste per ogni nostra relazione.

Gregorio Magno, nel Commento morale a Giobbe, fornisce un’efficace descri­zione del furore che s'impadronisce del colleri­co, accompagnandola con considerazioni assai acute. Vale la pena di citare la sua riflessione per esteso:

“Il cuore infiammato dagli stimoli della collera comin­cia a battere forte, il corpo trema, la lingua s'inceppa, il viso diventa di fuoco, gli occhi s'inferociscono e non si riconosce più nessuno, la bocca emette urli senza senso. Che differenza c'è tra un invasato e costui che non si rende conto di quel che fa? Così accade spes­so che la collera faccia trascendere a vie di fatto e diventi tanto più audace, quanto meno ragionevole; l'animo non riesce a dominarsi, perché è caduto in potere altrui; il furore spinge le membra fuori a colpi­re, appunto perché dentro tiene prigioniera la mente, padrona delle membra. Altre volte non mena le mani, ma la lingua scaglia maledizioni come frecce. Chiede con preghiere la morte del fratello, e insiste perché Dio compia ciò che lo stesso uomo malvagio teme o si vergogna di compiere; con la voce e con il deside­rio commette un omicidio, anche se non alza le mani contro il prossimo. In certi casi la collera impone il silenzio all'animo agitato; e, quanto meno si esprime fuori, tanto più esso brucia di dentro, adirato a tal punto da togliere la parola al prossimo, dicendogli con il silenzio la sua ostilità. È vero che talvolta questo severo silenzio è usato come correzione pedagogica, ma bisogna attuare con grande cura un discernimento interiore. Può infatti accadere che l'animo sdegnato eviti le consuete conversazioni e così, con l'andar del tempo, perda completamente l'amore del prossimo... Nell'occhio adirato la pagliuzza diventa una trave (cfr. Mt 7,3-5; Lc 6,41-42), e la collera si trasforma in odio. Spesso la collera, chiusa nell'animo con il silenzio, ribolle con più veemenza e, pur senza parlare, forma voci violente; immagina che le si rinfaccino parole esasperanti e, come se fosse in contraddittorio, risponde con termini anche più duri ... Così avviene che l'animo turbato sente ancor più lo strepito del proprio silenzio, e la fiamma della collera chiusa in cuore lo consuma maggiormente”.

Proseguendo l'ultima parte del ragiona­mento di Gregorio, è tuttavia possibile trarre un'importante deduzione: chi non mostra mai visibilmente la propria collera è molto pro­babilmente una persona priva di quel giusto pathos che deve contraddistinguere il rapporto con gli altri e con la realtà; oppure è uno che cova dentro di sé una rabbia sorda – celata sotto le apparenze di una falsa mitezza – che prima o poi esploderà provocando danni incal­colabili. C'è da chiedersi allora se non sia me­glio esprimere la propria collera, ovviamente entro certi limiti ed esercitandosi a imparare progressivamente a dominarne gli scoppi...

La “giusta” collera

Si comprende dunque quanto sia difficile fare un adeguato discernimento della collera. Va rilevato, infatti, che esiste anche un'ira, una collera «positiva», necessaria alla vita umana e allo sviluppo della personalità; è una sorta di zelo, di impeto positivo che è addirittu­ra necessario manifestare di fronte al male, all'ingiustizia, alla sofferenza delle vittime: è la collera per amore, cioè causata dall'amore. In questo senso, la Scrittura ci presenta la col­lera dei profeti di fronte allo stravolgimento del culto reso a Dio o di fronte all'ingiustizia (cfr. Es 32,15-24; Ger 25,14-38); la collera con cui Gesù reagisce alla malattia (cfr. Mc 1,41) e si scaglia contro la durezza di cuore dei suoi interlocutori (cfr. Mc 3,5); quella che lo porta a scacciare con decisione i venditori dal tem­pio (cfr. Mc 11,15-19 e par.; Gv 2,13-17). E Paolo potrà affermare: «Andate in collera ... ma il sole non tramonti sulla vostra ira» (Ef 4,26; cfr. Sal 4,5).

Va detto con chiarezza: vi è la possibilità di una collera dell'uomo che dia gloria a Dio (cfr. Sal 76,11), contrapposta a una falsa dol­cezza che nasconde un odio infinito, represso fino alla follia. Insomma, c'è un'indignazione, un'animosità umana che è non solo legittima, ma mostra anche la convinzione, la passio­ne, la forza di chi la manifesta; questa col­lera va invocata da Dio, ma poi non bisogna permettere che essa si inasprisca e finisca per accecarci.

Mi pare che tre siano le condizioni affin­ché la collera sia «giusta collera»: deve essere suscitata dalla giustizia, deve avere una retta intenzione, deve manifestarsi attraverso una reazione proporzionata. Essa non può dunque essere ingiusta, né vendicativa, né smisurata! Tutto questo si radica su un fondamento ben preciso: anche Dio va in collera, e la sua ira è l'altra faccia del suo amore per ogni creatura, di quella cura che lo porta ad affermare: «Io castigo e correggo quanti amo» (Ap 3,19; cfr. Pr 3,12).