L’IRA
cioè il rapporto deformato con gli altri (seconda parte)

Il vizio dei demoni

La pulsione della collera, al contrario, è cer­tamente un male quando diviene una presenza costante nei nostri rapporti con gli altri; quando è il segno del disprezzo e dell'odio nutriti verso l'altro in quanto tale; quando contiene l'inten­zione dell'annientamento e della distruzione dell'altro. La collera è in tal caso la negazione della relazione e della responsabilità; è la contraddizione per eccellenza alla comunicazione, al dialogo, all'incontro, all'alleanza; è il terreno su cui germina l'aggressività e si sviluppa la violenza verso l'altro. Essa corrisponde allora all'atteggiamento giudicato da Gesù alla stre­gua di un omicidio (cfr. Mt 5,21-22). Del resto, non è un caso che il primo peccato fraterno testimoniato dalla Bibbia sia l'ira di Caino – «Caino andò molto in collera e il suo volto cadde a terra» (Gen 4,5) –, che ebbe come esito l’omicidio di Abele suo fratello (cfr. Gen 4,3-8).

Per questo Giacomo dichiara che «la collera dell'uomo non realizza la giustizia di Dio» (Gc 1,20), con parole che costituiscono un chiaro monito: chi nella collera offende il fratello, non pensi di sostituirsi in tal modo a Dio nel giudizio o nella riparazione della colpa, vera o presunta tale. La collera infatti può accendersi contro gli altri quando essi, soprattutto coloro che amiamo, deludono le nostre aspettative, non ci assecon­dano nell'immagine che abbiamo di loro o non ci considerano come noi vorremmo; oppure, più sottilmente, quando scopriamo in loro dei difetti che non sopportiamo in noi stessi.

Quando si è preda di questi sentimenti, si rea­gisce fuggendo gli altri, e chiudendosi in sé, sde­gnati con il mondo intero... In breve: se la collera diviene un’abitudine, essa genera il pensiero che «gli altri sono l'inferno» (Jean-Paul Sartre), e finisce per minare l'accoglienza dell'altro nella sua diversità e nella sua verità, fino a recidere ogni possibilità di comunione. Ed è in questo senso che l'ira talora è indirizzata anche all'Altro per eccellenza, Dio, fino alla bestemmia e al sacrile­gio, quando egli pare resistere ai nostri desideri e alle immagini che nutriamo di lui. Non va infine dimenticata la collera che si indirizza contro una particolare forma di alterità, quella costituita da se stessi, spesso espressa mediante un atteggia­mento distruttivo verso qualche oggetto che ci appartiene.

Per descrivere la collera, Evagrio ricorre a im­magini eloquenti: «vapori nebbiosi,... nuvole che oscurano il sole»; l'ira è annebbiamento dello sguardo sulle persone e sulle cose, è perdita del controllo di sé, è una sorta di nuvola oscura che infittisce il cuore, rende oppressi e toglie il discernimento, cioè la capacità di valutare in modo veritiero ed equilibrato. Scrive ancora Evagrio: “Chi è mite è una fonte quieta, che offre a tutti una bevanda gradevole, ma la mente del collerico è sempre turbata e non offre da bere se non acqua intorbidita e cattiva. Il collerico ha occhi torbidi, iniettati di sangue, messaggeri di un cuore turbato”.    

Lo sappiamo bene: la reazione del collerico è sempre sproporzionata rispetto al contesto in cui esplode, e lui stesso non riesce a con­trollarla, al punto che questo sentimento può degenerare in aggressività, in violenza verbale o addirittura fisica. Non è un caso che Evagrio reputi la collera il vizio dei demoni: «Nessun altro male trasforma l'uomo in demonio come riesce a fare la collera». Quanto alla sua forma, l'ira – secondo Giovanni Damasceno – si manifesta come «collera, sdegno, rancore», e così, a partire da una reazione non dominata, essa può anche sfociare nella vendetta. E significativo che chi è in collera è incapace di pregare, ma resta pri­gioniero e in balia di questa pulsione...

Solitudine e silenzio contro l’ira

Per quanto riguarda la lotta contro questa pas­sione, va innanzitutto rilevato che cedere costan­temente alla collera è il segno di una vita scarsa­mente umana, non sufficientemente ritmata dal riposo, dalla solitudine e dal silenzio. Henri J. M. Nouwen con ragione fa notare che, nel ritmo affannoso della vita contemporanea, la collera è divenuta una delle dominanti sulle singole per­sone. A suo avviso, essa appare «quasi come un vizio professionale del ministero (presbiterale) contemporaneo. I pastori sono irati con i loro su­periori perché non li guidano e con i loro seguaci perché non li seguono. Sono irati con coloro che non vengono in chiesa perché non ci vengono e con coloro che ci vengono perché ci vengono senza entusiasmo. Sono irati con le loro famiglie perché li fanno sentire colpevoli e con se stessi perché non sono ciò che vorrebbero essere».

Uno strumento elementare di lotta contro la collera è dunque costituito dalla capacità di abitare il silenzio e la solitudine in modo profondo e intelligente, consentendo loro di divenire spa­zio per placare i nostri fantasmi interiori; la soli­tudine e il silenzio sono assolutamente necessari per lottare contro le compulsioni del falso «io», che, sempre minacciato dalla possibilità dell'insuccesso e della non affermazione sugli altri, si apre alla collera. Solo chi sa stare in silenzio e in solitudine a lungo, sarà anche capace di spegnere la collera che lo abita. La presa di distanza da ciò che si fa, dall'ambiente in cui si vive e da quelli che solitamente ci sono accanto, è un'occasio­ne per ritrovare la pace, per far tacere la collera che tende a diventare una presenza nascosta e costante, una rabbia che si accumula e ci dà un volto e un modo di fare che certo non suscitano simpatia in chi ci circonda.

“Chi è l’altro per me?”

Più in profondità, però, per sconfiggere la collera occorre la capacità di porsi una sempli­ce ma decisiva domanda: “Chi è l'altro per me?”. È una persona con cui entrare in relazione, di cui essere custode (cfr. Gen 4,9), oppure è qualcuno da dominare a mio piacimento, fino a negare la sua stessa esistenza (cfr. Gen 4,8)? E i cristiani dovrebbero ricordare la risposta che viene dal­la fede: l'altro è «un fratello per cui Cristo è morto» (1Cor 8,11), e pertanto occorre porre il rapporto con lui davanti al Signore. Negli apof­tegmi dei Padri del deserto c'è un insegnamento che mostra bene come noi tendiamo a scaricare sugli altri la colpa della nostra collera, e come in realtà solo nella quotidiana, reale vita comune essa può essere dominata e tenuta a bada:

“Vi era in un cenobio un fratello... facilmente soggetto alla collera. Disse dunque tra sé: «Andrò a vivere da solo: non avendo più a che fare con nessuno, la passione si allontanerà da me». Se ne andò dunque ad abitare da solo in una grotta. Ma un giorno riempì la brocca d'acqua, e quando la posò per terra, questa si rovesciò. La riempì di nuovo ed essa si rovesciò ancora. La riempì una terza volta ed essa si rovesciò ancora. Allora, infuriato, prese la brocca e la spezzò. Poi, rientrato in sé, capì che il diavolo si era fatto beffe di lui, e disse: «Ecco, mi sono ritirato a vita solitaria, e sono stato sconfitto. Ritornerò dunque in comunità. Ovunque, infatti, c'è bisogno di lotta, di pazienza e dell'aiuto di Dio». E così ritornò donde era venuto” (Detti dei Padri del deserto, Collezione sistematica VII,33).

Concretamente, si tratta di giungere ad as­sumere comportamenti improntati a dolcezza e mitezza sulle orme di Cristo «mite e umile di cuore» (Mt 11,29); e se Gesù ha chiesto ai suoi discepoli di porgere l'altra guancia (cfr. Mt 5,39; Lc 6,29), di amare i nemici e di pregare per loro (cfr. Mt 5,44; Lc 6,27-28.35), eserci­tarsi alla mitezza per noi comporta almeno la necessità di porre un limite all'ira che ci assale, in modo da evitare di giungere a parole o ad atti che possano ferire chi ci è accanto: «bisogna, se è possibile, impedire che la collera penetri fino al cuore; se vi è già, fare in modo che non si manifesti nel viso; se vi si mostra, custodire la propria lingua per cercare di preservarla; se è già sulle labbra, impedire di passare negli atti, e vegliare per eliminarla al più presto dal cuore» (Vite dei Padri, III,76).

E proprio qui che si situa l'atteggiamento de­finito dal Nuovo Testamento col termine “pazienza” (cfr. 1Cor 13,4; Ef 4,2; Col 3,12-13; 1Ts 5,14), non a caso un frutto dello Spirito santo (cfr. Gal 5,22): quella capacità di pazienza, di sentire in grande, che è un attributo di Dio (cfr. Es 34,6) e, per l'uomo, è l'arte di convivere con l'imperfezione e l'inadeguatezza presenti in lui, negli altri e nella realtà; pazienza che significa anche sopportare, cioè “sup-portare” e sostenere gli altri nelle loro debolezze, che prima o poi sono anche le nostre. Ciò può condurre fino alla sot­tomissione reciproca, nella fede che gli altri, nel­la loro diversità e alterità, sono per noi il grande dono del Signore. Infine, se la collera è ciò che più di ogni altra cosa impedisce la preghiera (cfr.  Mt 5,23-24; Mc 11,25), e proprio durante la preghiera ci porta a raffigurare davanti a noi il volto di chi ci ha rattristato, per vincerla occor­rerà entrare nella fatica della vera preghiera: «Se tu serbi rancore contro qualcuno, prega per lui, e così frenerai la passione che ti turba» (Massimo il Confessore).

Infine, come non ricordare che il canto può essere un esercizio per calmare il sentimento della collera? Oggi conosciamo il valore tera­peutico del cantare, ma i monaci l'hanno capito da sempre. Chi canta non può cantare con col­lera, con rabbia; cantando, emettendo fiato, non si ha «brevità di respiro» (Pr 14,17) ma il lungo respiro di chi vuole tutto abbracciare con tanta magnanimità. Anche il proverbio: «Canta che ti passa!» ha un suo valore.