LA GOLA
cioè il rapporto deformato con il cibo (seconda parte)
LA LOTTA CONTRO L’INGORDIGIA
È innegabile che la lotta contro l'ingordigia comporta un'enorme fatica: basti pensare all'attuale, massiccio ricorso alle diete o ai farmaci per dimagrire, che si dimostrano quasi sempre inutili e, di conseguenza, accrescono la frustrazione di chi vi si affida. Eppure è proprio a partire dal nostro rapporto con il cibo che si decide la nostra libertà, è questo il terreno privilegiato per conoscere da cosa siamo abitati. Avverte con grande lucidità Cassiano: «Dobbiamo innanzitutto dare prova della nostra condizione di uomini liberi attraverso la sottomissione del nostro corpo, perché "ciascuno è schiavo di ciò che l'ha vinto" (2Pt 2,19)», e noi conosciamo per esperienza la verità di queste parole: chi non sa praticare una rinuncia elementare a una piccola quantità di cibo, non potrà mai disciplinare i bisogni prepotenti che insorgono nel proprio cuore, assumendo il volto di bestie fameliche.
Va intesa in quest’ottica la grande attenzione mostrata dai padri monastici nei confronti del rapporto con l'alimentazione, la loro insistenza sulla misura del cibo da assumere: non si tratta di norme legalistiche, ma di un esercizio di disciplina della propria oralità, in vista di un'ascesi del bisogno e di un'educazione del desiderio.
L'ingordigia è causata da un desiderio smodato e quindi va combattuta – lo ripeto – attraverso l'integrazione del desiderio e la rinuncia ai suoi eccessi. L'uomo di oggi deve reimparare ad ascoltare il proprio corpo e non solo il richiamo del piacere, che tende per sua natura alla dismisura, all'eccesso. Raccomanda Cassiano: «Si prenda il cibo secondo il bisogno della salute e non secondo il desiderio». Non a caso nella tradizione ebraica e cristiana alla tavola, al mangiare è strettamente connessa la preghiera: innanzitutto quale presa di distanza dall'aggressività e riconoscimento che il cibo è dono di Dio e non conquista violenta; quindi quale ringraziamento perché Dio ci concede il pane quotidiano; infine quale memoria della comunione, della condivisione che il cibo deve avere in quanto dono destinato a tutti gli uomini, non ad alcuni o a pochi!
Si comprende in questa scia anche lo strumento per eccellenza proposto dalla tradizione cristiana per lottare contro la voracità: il digiuno moderato e intelligente, inscritto nel ritmo dei giorni della settimana o nel corso dell'anno, in particolare durante il tempo della Quaresima. La pratica del digiuno non significa disprezzo del cibo, né va intesa come una penitenza meritoria; «vano è il digiuno senza carità, ed è meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i propri fratelli» (Detti dei padri del deserto, Collezione alfabetica).
Al contrario, il digiuno è una forma di rispetto originata da una sana presa di distanza dal cibo stesso, è una disciplina del desiderio per discernere che cosa, oltre il pane, è veramente necessario per vivere. Ecco perché digiunare con coscienza di causa – e sempre nel segreto, senza ostentazione (cfr. Mt 6,6) – può condurre a porsi le domande essenziali: Perché mangio? Cosa mangio? Come mangio? E inoltre: quali sono i miei desideri più profondi? Astenersi consapevolmente dal cibo può anche indurre a chiedersi se nelle relazioni con gli altri il cibo è strumento di condivisione e di incontro, oppure è una via per soddisfare il proprio piacere contro e senza di loro.
Imparare a mangiare
E in tal modo potremo giungere a comprendere che imparare a mangiare significa imparare a farlo insieme agli altri: la tavola è infatti il luogo per eccellenza in cui gli uomini da sempre stringono amicizia e creano cultura, a patto che il cibo non sia semplicemente consumato, ma sia assunto umanamente e crei comunione tra i commensali. A tavola non si condivide solo il cibo, ma si scambiano parole per nutrire le relazioni, ovvero ciò che dà senso alla vita sostentata dal cibo. È il mangiare insieme che ha implicato la creazione del linguaggio; e siccome questo atto è legato all'oralità e al desiderio, esso investe la sfera affettiva ed emozionale dell'uomo: è dunque un simbolo antropologico decisivo, che coglie l'uomo nella sua profondità e lo definisce nel suo legame con la terra, con il lavoro, con la famiglia, con la società. Mangiando, noi assumiamo il mondo in noi e lo trasformiamo: noi siamo ciò che mangiamo! Certo, occorre avere chiara consapevolezza del nostro consumare il cibo: come avvertiva J. A. Brillat-Savarin, «gli animali si nutrono, l'uomo mangia, solo l'uomo sapiente sa mangiare».
Non è infine casuale che l'Eucaristia, fonte e culmine della vita della comunità cristiana, sia stata collocata da Gesù all'interno di una cena e accompagnata dalle parole: «Prendete e mangiate ... prendete e bevete» (cfr. Mc 14,22-25 e par.). Non è facile apprendere l'arte umana del mangiare e del bere; ma è proprio a partire da tale consapevolezza che Gesù ha scelto queste due realtà come cifra della nuova alleanza. L'Eucaristia dovrebbe dunque insegnarci anche questo: ci cibiamo del corpo e del sangue del Signore immettendoci in quella logica di dono e di comunione che sconfessa ogni voracità. E tutto avviene nel rendimento di grazie, nella confessione che ogni cosa proviene da Dio: il cibo è buono, «ogni alimento è puro» (cfr. Mc 7,19), ma occorre nutrirsene ringraziando Dio e condividendolo con chi è a tavola con noi. Davvero il rapporto con il cibo è l'ambito elementare in cui ogni cristiano è chiamato alla lotta essenziale, quella che fa da filo conduttore a tutto il nostro percorso: passare dalla logica del consumo a quella della comunione, in modo che mangiare e bere siano azioni che riconoscono la gloria di Dio (cfr. 1Cor 10,31). Non si dimentichi: l'Eucaristia possiede il più alto ed efficace magistero nel nostro rapporto con il cibo!
Nel rapporto con il cibo, sempre rivelativo del rapporto che uno ha con se stesso e con gli altri, occorrono dunque: sobrietà quale giusta misura; temperanza quale limite intelligente; riconoscenza, perché il cibo è sempre qualcosa per cui occorre dire grazie ad altri, all'Altro; giustizia, perché il cibo è sempre da condividere con chi non ne ha.