SCHEDA N. 5 – “LA PRATICA DEI CONSIGLI EVANGELICI DI CASTITÀ, POVERTÀ, OBBEDIENZA”


Dalla Sacra Scrittura

Mc 1,15: “E diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo»”.


Dal Direttorio

Essere orientati alla pratica dei consigli evangelici di obbedienza, povertà e castità significa ricordare che durante la vita terrena si è in viaggio alla sequela del Signore, pertanto tutti hanno dei distacchi da operare per potersi donare totalmente al Signore Gesù che, come ci mostra e ci insegna il Vangelo, ha vissuto obbediente, povero e casto. Il Vangelo “consiglia” a tutti, in ogni stato di vita, di seguire Gesù: “Poi a tutti diceva: Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23) (2.3).


Proposta di approfondimento

Essere orientati alla pratica dei consigli evangelici di obbedienza, povertà e castità significa ricordare che durante la vita terrena si è in viaggio alla sequela del Signore.

Cristo è il modello di ogni virtù. Perciò “i consigli evangelici, nella loro molteplicità, sono proposti ad ogni discepolo di Cristo: ogni battezzato è chiamato ad una vita casta e povera in obbedienza a Dio, ciascuno secondo lo stato di vita che gli è proprio” (dal Catechismo della Chiesa cattolica, 915).

“Nei tre vangeli sinottici l’appello di Gesù rivolto al giovane ricco a seguirlo nell’obbedienza del discepolo e nell’osservanza dei comandamenti è accostato all’esortazione alla povertà e alla castità. I consigli evangelici sono indissociabili dai comandamenti” (dal Catechismo della Chiesa cattolica, 2053). La professione  dei  consigli   evangelici   è   per   alcuni   che   sono   chiamati,   ed   “appare come un segno, il quale può e deve attirare efficacemente tutti i membri della Chiesa a compiere con slancio i doveri della vocazione cristiana…” (Lumen gentium, 44).

 

- Da Divo Barsotti, Ascesi di comunione, ed. Morcelliana, sintesi.

Le Beatitudini sono praticamente un messaggio di gioia e di felicità con cui  si  apre  il Vangelo. Tuttavia esse hanno un carattere estremamente paradossale per noi uomini che viviamo nel tempo: Dio vuole la nostra beatitudine, ma la unisce a quanto l’uomo non pensa che porti beatitudine; è proprio quello che l’uomo fugge quello invece che per il Signore dona la beatitudine e la gioia. Per capire il paradossale legame nell’insegnamento di Cristo fra la beatitudine e la povertà, fra la beatitudine e il pianto, dobbiamo capire, attraverso la dottrina cristiana, che cosa sia la perfetta realizzazione dell’uomo.

La Bibbia, e la teologia cattolica, riconoscono che l’uomo è composto sostanzialmente di anima e di corpo, è veramente questo il capolavoro di Dio. Nell’uomo, all’origine, Dio non soltanto ha riavvicinato due mondi che sono di per sé distanti, diversi e sembrano non avere nulla in comune; ma ha fatto di due mondi una sola unità, l’uomo, in tal modo che il corpo è voluto da Dio strumento dello spirito, manifestazione dello spirito, e lo spirito ha nello stesso tempo rapporto con Dio e col mondo fisico. Ma oggi questa unità non è né pacifica né perfetta, è intervenuto il peccato a comprometterla. Il peccato ha operato una grave frattura, che non è soltanto fra l’uomo e gli altri uomini, né soltanto fra l’uomo e Dio, non soltanto fra l’uomo e la creazione, ma è nell’uomo medesimo. La vita cristiana è la vita dell’uomo che mediante lo Spirito Santo è ricomposto in unità.

Il primo dovere del cristiano è l’ascesi, che è una conseguenza della Grazia, offertaci da Cristo per risanare, ristabilire l’unità dell’essere umano. L’ascesi cristiana  s’impone,  è “accidentalmente” necessaria, è un cammino obbligato fintanto che non saremo in paradiso.  Per tutta la vita avremo bisogno di esercitarci nelle virtù, di fare l’esame di coscienza per vedere se abbiamo mancato. La virtù è un esercizio imposto alla nostra volontà da una obbedienza alla legge divina, da una esigenza di unità, che dobbiamo ristabilire attraverso una mortificazione di quanto può comprometterla, mortificazione che sarà commisurata alla gravità della ferita che ha operato in noi il peccato, il peccato originale, ma anche poi tutto il seguito di quei peccati attuali con i quali noi abbiamo reso sempre più opaco il nostro spirito alla grazia, sempre più incapace di rispondere alle sollecitazioni di Dio. La beatitudine si vive passando attraverso  questo cammino. Si deve in qualche modo vivere in anticipo la propria morte perché si dilati il nostro spirito ad accogliere la vita di Dio.

L’OBBEDIENZA

La prima cosa necessaria nell’ascesi cristiana è il risanamento del rapporto con Dio. È per avere compromesso questo rapporto che la natura umana è stata vulnerata, perché Dio è il nostro Creatore. Non si  può impunemente rompere  un rapporto con Lui che  è Creatore, senza che la nostra natura si disgreghi, tenda a dissolversi, a spezzarsi. Allora è soltanto nella misura che l’uomo ristabilisce un rapporto con Dio, che può anche risanare se stesso. Non c’è inizio di vita che in quanto l’uomo accetta Dio e si ordina a Lui. Dopo il peccato è necessario il riconoscimento e l’accettazione della sovranità di Dio; anche la morale è dettata e ristabilita da Dio: “Io sono il Signore Dio tuo” (Es 20,1). Il peccato è stato una volontà di autonomia da parte dell’uomo, di indipendenza nei confronti di Dio, per volere essere Dio a se stesso. La possibilità di ristabilire un rapporto è nell’umiltà che ci dispone all’obbedienza, ad un nuovo accordo con la divina volontà. L’uomo deve ritornare ad accettare Dio come Colui dal quale egli dipende totalmente per quanto riguarda il suo essere, la sua vita, la sua origine, il suo fine. Egli vivrà in quanto vorrà vivere sempre più intensamente e non si sottrarrà alle esigenze che la dipendenza assoluta da Dio gli imporrà (cfr. Mt 7,21: “… Entrerà nel regno dei cieli chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”).

Ogni atto cristiano è di per sé obbedienza, è il “fare la volontà divina”. Quanto più grande è in noi l’esigenza di perfezione, tanto più grande è l’esigenza di un’obbedienza sempre più pronta e universale, che ci tolga ogni proprietà nel volere. E la piena libertà dell’anima si identifica alla perfetta obbedienza a Dio.

Non si tratta soltanto di obbedire direttamente a Lui; Dio ha voluto che obbedissimo a Lui anche  sottomettendoci  a coloro che  ce  lo rappresentano, perché è per mezzo di uomini che Egli ci guida. Vivere in questo mondo, vivere nella Chiesa, sarà sempre motivo di mortificazione e di pena, finché ciascuno non si sarà liberato dalla sua indipendenza, dalla volontà propria, per aderire a Dio come al suo Bene ultimo e primo, e troverà nella volontà di Dio la sua pace.

LA CASTITÀ

Dal risanamento del nostro rapporto con Dio dovrà essere risanata la nostra natura.  Il peccato ha portato disordine e guerra nella nostra vita interiore: il corpo non obbedisce allo spirito, recalcitra perché vorrebbe vivere la sua vita senza i freni imposti dalla volontà, che gli impediscono di abbandonarsi interamente agli istinti; lo spirito non può piegarsi a obbedire alla carne, non trova nel corpo la possibilità della sua rivelazione, e piuttosto che uno strumento lo trova un impedimento e una catena, perché è stanco, debole, imperfetto, incapace e impotente. E invece l’uomo deve vivere intero. L’ascesi cristiana è soprattutto mortificazione del corpo; l’unità dell’uomo deve consistere in una nuova soggezione del corpo allo spirito, in un controllo e una direzione degli istinti della natura sensibile, perché possa divenire un corpo umano. L’ascesi che deve riportare l’uomo alla sua unità, a ristabilire l’equilibrio, l’armonia  per  portare  anima  e corpo alla loro piena unità, è un’ascesi fondamentalmente corporale: è il digiuno, è soprattutto la castità. La mortificazione corporale, anche se è mortificazione della gola o del tatto, della vista o dell’udito, praticamente però si può definire come “castità”, cioè un certo riserbo,  non  soltanto nei confronti dell’istinto sessuale, un certo riserbo del corpo che non si abbandona agli istinti, ma controlla ogni suo movimento e ordina tutta la vita sensibile alla vita spirituale, a Dio. Lo spirito deve essere soggetto a Dio per essere libero, il corpo deve essere soggetto allo spirito per essere umano. Vi è castità e castità indubbiamente, ma non vi è vita cristiana, né tanto meno vita spirituale, senza una certa castità.

Bisogna che il nostro corpo passi attraverso le fiamme di una purificazione che consumi in noi tutto quello che vi è di disordinato. Il corpo tende, come a suo riposo, al piacere che più lo soddisfa, lo quieta; ne viene che l’accontentare la natura sensibile la rende sempre più avida, e quando trova il suo pieno soddisfacimento, fa interrompere la natura spirituale: questa è proprio la dimostrazione dell’effetto del peccato sulla nostra natura.

Come la vita cristiana è cammino alla gloria, così la vita cristiana è cammino a questa unità che l’uomo possederà perfetta solo dopo la resurrezione della carne: allora non soltanto lo spirito dell’uomo troverà nella visione di Dio il suo pieno soddisfacimento, ma anche la nostra natura sensibile, la gioia dell’uomo sarà piena nel corpo e nello spirito. Già nella vita presente possiamo riconoscerlo. La vita mistica è insieme una dilatazione dello  spirito  e una gioia  del  cuore: “Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente” (Sal 83,3; cfr. 1Gv 3,1-3; 1Cor 6,12-20); ed è anche trasfigurazione. Non basta la parola scritta del Vangelo perché gli uomini si incontrino con Dio, e tanto meno la creazione. La rivelazione suprema di Dio è l’uomo Gesù, una umanità in cui gli uomini vedono Dio: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9). Dio si fa presente nelle membra del Cristo: nei cristiani, nei santi, nella misura in cui rivelano Dio, un altro mondo, una Presenza. Il santo è la suprema bellezza, per questo ha  una  forza  di  attrazione  che  supera qualsiasi altra forza, la loro stessa presenza opera.

È la castità che riporta il corpo dell’uomo ad essere puro strumento e manifestazione dello spirito così come lo spirito dell’uomo diviene strumento di Dio e rivelazione della sua bellezza, una castità che è divenuta perfetta perché capacità  nuova di  amare  e  di essere amati. Coloro che non conoscono le esigenze della castità sono incapaci di amare e trasformano il loro amore in un oggetto di possesso e di divertimento. La castità non è rifiuto all’amore, se fosse rifiuto all’amore non sarebbe nemmeno una virtù cristiana. Gesù, “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine…” (Gv 13,1). La castità è cammino verso l’amore, è scuola dell’amore, che sciogliendosi da tutti i limiti che impone il corpo, dà all’uomo la possibilità di comunicare con tutti, di donarsi a ciascuno. In questo si rivela la castità nel  suo  valore  positivo  e  la  castità diviene, secondo la parola stessa del Signore, il segno di una resurrezione. La castità è la via per giungere alla perfezione di un amore per il quale l’uomo non è più in se stesso diviso ma, nella misura che ama, ama con tutto se stesso, spirito e corpo. L’amore diviene pian piano sempre più limpido e puro, rimane un amore sensibile ma diviene un amore sempre più spiritualizzato.

LA POVERTÀ

Nell’amore cristiano è Dio stesso che vive nel cuore dell’uomo, perché lo consumi in ogni istante; in ogni istante deve farsi povero fino a morire, per donare a ciascuno quello che ha e se stesso. La morte deve consumare tutte le nostre possibilità nel dono di noi stessi a ogni fratello. Siamo rapporto di amore a tutti, a ciascuno, senza possedere più nulla di proprio, non viviamo che il dono di noi stessi. Dobbiamo arrivare a non avere più nulla, per non essere più che amore e non possiamo realizzare la nostra vocazione cristiana che nel nostro morire, come Gesù.

È questa carità che risana anche il rapporto dell’uomo con le cose, con tutta la creazione, rapporto che non può essere considerato estraneo alla vita spirituale. Anzi, la sintesi che Dio ha compiuto della sua creazione nell’uomo è in ordine a una salvezza di tutta la creazione che sarà compiuta attraverso l’uomo, egli è preparato ad assumere la funzione, la missione di colui per il quale tutta la creazione ritrova il suo senso, ritorna in Dio e lo glorifica. È nel Cristo risorto che l’uomo realizza la sua vocazione, partecipando non solo alla sua santità, ma anche alla sua universale missione: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18).

Quando il peccato dell’uomo ha rotto il legame con Dio, tutta la creazione si è disgregata, perché era nell’ordinarsi all’uomo che essa doveva raggiungere la sua unità, ed è in quanto non può ordinarsi più all’uomo, perché l’uomo è peccatore, che la creazione stessa diviene schiava, si dissolve, precipita nel caos, nella morte. Sarà nella salvezza dell’uomo che  la  creazione ritornerà ad essere paradiso di Dio. Il rapporto dell’uomo con la creazione è un rapporto regale, senza l’uomo la creazione non ha più senso, non ha più ragione. Ma la  regalità dell’uomo è ordinata al sacrificio, l’oblazione pura non più soltanto dell’anima, non più soltanto del corpo, non più soltanto di tutta l’umanità,  ma di  tutta la creazione che deve divenire  offerta  dell’uomo  a Dio. L’uomo deve ritornare in possesso di tutto, perché tutto poi divenga la sua offerta a Dio. E la regalità dell’uomo comporta la povertà. Noi non possediamo se non quello che doniamo.  Il possesso della creazione non deve asservire la creazione al peccato, all’egoismo dell’uomo, ma deve portare la creazione in possesso dell’uomo che è ordinato alla lode divina.

Un rapporto con la creazione prima di tutto vuol dire una capacità di meraviglia. Le creature sono presenti nella tua strada precisamente perché ti debbono parlare di Dio, ti riportano a Lui, sono sacramento del suo amore. La creazione deve ritornare ad essere paradiso di Dio, già da ora, in quel rapporto per cui l’uomo riconosce il senso ultimo della creazione e la creazione diviene per l’uomo sacramento di Dio.

Il rapporto dell’uomo con le cose non deve rovinarle, ma salvarle! Tutto quello che abbiamo, di fatto ci impedisce di essere ricchi. Tutto l’universo è il possesso dell’uomo! Ogni proprietà è esclusione,  è limite alla  nostra ricchezza.  Nella misura che ci  attacchiamo a qualcosa, ci escludiamo dal possesso di tutto e non ne godiamo. Nella misura che ti impadronisci delle cose e le tieni per te, legandole egoisticamente a te, nella stessa misura esse non solo si rifiutano, ma si vendicano contro di te impedendoti il vero possesso. Non gode mai delle cose colui che le possiede, come colui che nella povertà si mantiene libero nei confronti delle cose e del mondo (cfr. Mt 19,21).

Vivere il rapporto con le cose vuol dire povertà; la povertà sembra veramente l’unica condizione per goderle, per possederle di quel possesso che non asservisce né l’uomo alle cose, né le cose all’uomo, ma fa di tutte le creature l’argomento e il contenuto della lode e della gioia dell’uomo. Nessuno forse mai ha goduto delle cose come Gesù, colui che veramente ha ridonato una voce all’universo per cantare Dio. Il suo linguaggio rende testimonianza di una comunione col Padre, in una comunione viva, gioiosa, personale con la creazione intera. E ci ha insegnato che il Regno dei cieli è presente in ogni punto, nella creazione intera, basta che l’uomo sappia aprire gli occhi, sappia ascoltare attraverso ogni voce la parola di Dio.